Questo articolo è stato pubblicato il 16 dicembre 2010 alle ore 13:51.
KIEV – Due anni fa, cinque dei dieci nuovi membri dell’Unione europea appartenenti all’Est europeo – i tre stati baltici, Ungheria e Romania – sembravano devastati dalla crisi finanziaria globale. Dilagavano malcontento sociale, enormi svalutazioni e proteste populiste.
Poi tutto si è sistemato. Oggi, tutti questi paesi stanno tornando alla stabilità finanziaria e alla crescita economica senza particolari sconvolgimenti. Oltretutto, nessun paese ha modificato il proprio sistema di cambio. La Vecchia Europa dovrebbe imparare qualcosa da questo notevole successo della Nuova Europa.
A causare la crisi finanziaria dell’Est europeo è stato un classico ciclo creditizio di tipo boom/bust. I paesi dell’Est europeo hanno attirato ampi flussi di capitali internazionali, grazie alla blanda politica monetaria globale e alle condizioni accomodanti dell’attività imprenditoriale. Alla fine, i prestiti bancari a breve termine, divenuti eccessivi, furono impiegati per finanziare investimenti immobiliari a dismisura e folli consumi, mentre l’inflazione prendeva piede.
Inoltre, i deficit delle partite correnti si trasformavano in massiccio debito estero del settore privato, mentre i conti pubblici erano in buono stato ovunque, ad eccezione della socialista Ungheria. Tale fase di crescita e crollo rievoca la situazione dell’Est asiatico del 1997-1998.
Le nazioni dell’Est asiatico, nonché la Russia nel 1998 e l’Argentina nel 2001, uscirono dalla crisi attraverso la svalutazione. Un coro di preminenti economisti americani, tra cui Paul Krugman, Kenneth Rogoff e Nouriel Roubini, sosteneva che anche la Lettonia, l’Estonia e la Lituania avrebbero dovuto svalutare la propria divisa. Non lo fecero, eppure riuscirono a tirarsi fuori dalla crisi.
Gli stati baltici avevano numerose ragioni per non svalutare. Il loro obiettivo di adottare l’euro quanto prima sarebbe stato ostacolato da un’eventuale svalutazione. Dal momento che le loro piccole ed aperte economie erano già pesantemente euro-izzate, l’impatto inflazionistico di pass-through relativo all’aumento dei prezzi esteri, sarebbe stato enorme a seguito di una qualsiasi svalutazione, che avrebbe altresì spezzato i loro sistemi bancari ragionevolmente sani.
I tre governi baltici hanno invece optato per la svalutazione interna, riducendo i salari e i costi del settore pubblico. Nel 2009, i tre paesi hanno tagliato le spese pubbliche dell’8-10% del Pil, che (va notato) è stato politicamente più semplice che effettuare tagli marginali. Quando i tagli sono profondi, le persone percepiscono quanto sia grave la crisi, e ciò che è politicamente impossibile diventa necessario. Vengono solitamente applicati in parallelo anche piccoli tagli, che colpiscono tutti i servizi pubblici, mentre i tagli profondi devono essere selettivi e strutturali, e quindi potrebbero incentivare l’efficienza economica.
Tutti i paesi in difficoltà hanno tagliato sulla pubblica amministrazione e sui salari. La Lettonia ha ridotto drasticamente i salari pubblici del 35% e dimezzato il numero di agenzie statali. Ha anche chiuso metà dell’eccessivo numero di ospedali e licenziato i docenti in esubero, che prima della crisi erano uno ogni sei bambini.
Estonia, Lituania, Ungheria, Romania e Bulgaria hanno attuato simili riforme, sebbene non così radicali. (La Lituania, ad esempio, ha perseguito una riforma del sistema di istruzione superiore per valorizzare l’efficienza e la qualità). Inoltre, benché con la recessione le entrate statali abbiano registrato un calo, costringendo alcuni paesi ad alzare le imposte sul valore aggiunto, nessun paese ha incrementato le tasse sui redditi, e nessuno dei sette paesi che applicano un’imposta sul reddito ad aliquota fissa hanno rinunciato a questa tassa. Il risultato è che tali paesi escono dalla crisi in modo più produttivo.
Contrariamente alle aspettative – e all’esperienza greca e francese – il malcontento sociale è stato minimo. Né gli estremisti di sinistra né quelli di destra hanno approfittato della situazione. Nelle elezioni del Parlamento europeo svoltesi nel giugno 2009, i partiti di centrodestra hanno ottenuto la maggioranza in tutti i dieci paesi dell’Est europeo, e i partiti di centrodestra ora governano nove di essi, con l’unica eccezione della Slovenia.
La destra liberale non è mai stata così forte nell’Est europeo. I comunisti sono stati sconfitti e i socialisti indeboliti pesantemente. L’estrema destra ha perso sostegno ovunque tranne che in Ungheria.
Quest’anno, i partiti di centrodestra hanno segnato tre vittorie a sorpresa – in Repubblica Ceca, Slovacchia e Lettonia. Il nuovo ministro degli Esteri ceco, Karel Schwarzenberg, ha affermato: Abbiamo vinto dicendo la verità. Il populismo non è più in voga.
Più schiacciante è stata la vittoria del Primo Ministro lettone, Valdis Dombrovskis, il 2 ottobre. I seggi parlamentari assegnati alla sua coalizione sono passati dal 45% al 63%, nonostante lo scorso anno il Pil sia sceso drasticamente del 18%. Dombrovskis ha dato la colpa ai predecessori irresponsabili, e gli elettori lo hanno chiaramente considerato il più credibile problem solver.
Tre paesi nella regione (Ungheria, Lettonia e Romania) hanno richiesto programmi di emergenza al Fondo monetario internazionale. Il Fmi aveva appreso la lezione dall’Est asiatico, creando minori condizioni e offrendo più finanziamenti per il risanamento dei bilanci, dal momento che i problemi erano temporanei e non strutturali. Anche l’Ue ha fornito i propri aiuti, mentre la Banca centrale europea, che avrebbe potuto offrire swap credits, non ha rivestito alcun ruolo decisivo.
A seguito di questa ottima uscita dalla crisi, i membri dell’Est europeo appartenenti all’Ue mostrano una forma migliore, sia a livello fiscale che a livello strutturale, rispetto ai membri della vecchia eurozona. Dei 12 membri entrati nell’eurozona nel 2001, solo due (Finlandia e Lussemburgo) hanno debiti pubblici inferiori al 60% del Pil rispetto a nove dei nuovi dieci membri dell’Est europeo. Solo l’Ungheria deve fare i conti con un ampio debito pubblico. Gli europei dell’Est hanno patito un elevato debito del settore privato, che hanno ampiamente evitato trasformandolo in debito pubblico.
Tutto ciò, abbinato a un migliore posizionamento post-crisi nelle istituzioni europee (come, ad esempio, enti di vigilanza finanziaria) contribuisce a creare una maggiore divergenza in Europa. Anche se le economie dell’Est europeo sembrano più in salute rispetto ai paesi dell’eurozona, non stanno abbandonando il progetto comunitario. Al contrario, quest’anno l’Estonia ha ottenuto il via libera per accedere all’eurozona a partire dal primo gennaio 2011.
Anders Åslund, senior fellow del Peterson Institute for International Economics, è autore di The Last Shall Be the First: The East European Financial Crisis, 2008-10.
Copyright: Project Syndicate, 2010.www.project-syndicate.orgTraduzione di Simona Polverino