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Economia Politica economica

La corsa degli emergenti spinge le materie prime

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Questo articolo è stato pubblicato il 20 dicembre 2010 alle ore 10:06.

Inflazione
C'è qualcosa che è tornato ai livelli pre-crisi, anzi ben oltre. Non la produzione industriale nei Paesi avanzati, né l'occupazione, non i tassi e neppure le Borse. Ma i corsi delle materie prime industriali sì. L'indice Economist in dollari di metalli non ferrosi e input di origine agricola ha segnato nuovi record. Ai primi di dicembre era dell'8,4% sopra il picco toccato nel marzo 2008.

E questa corsa avrà magari pause e anche ripiegamenti, sarà anche stata alimentata momentaneamente da problemi di offerta, qua e là, e accelerata dall'afflusso di capitali finanziari in cerca di maggiori rendimenti, ma è soprattutto sostenuta da fattori di fondo strutturali che spingeranno le quotazioni ancora più in alto nei prossimi anni. Questi fattori si possono, in sintesi, ridurre a uno: la fame di materie prime delle economie emergenti, che sono quelle che crescono di più e che forniranno il 70% dell'incremento del Pil mondiale nei prossimi anni.

Quelle economie aumenteranno anche la loro intensità di beni primari sul loro Pil, man mano che la domanda di centinaia di milioni di persone innalzeranno redditi e consumi verso gli standard occidentali. Al contempo, eserciteranno una forte pressione concorrenziale sull'offerta di prodotti finiti e quindi renderanno molto difficile scaricare sui listini i rincari dei costi. In questo contesto, le imprese non possono che reagire in un solo modo: innovando per aumentare il valore aggiunto, per spostarsi verso tecniche meno intensive di materie prime e per essere meno incalzate dalla concorrenza. Queste sono le uniche vie che consentiranno di difendere i margini di profitto. L'inflazione invece non salirà, perché c'è un'ampia capacità produttiva sottoutilizzata, che si esprime anche sottoforma di elevata disoccupazione.

Indicatori reali
La ripresa si è ripresa. Dopo la pausa estiva, che aveva fatto temere a molti (ma non alle «Lancette»), una caduta recessiva, tutti gli indicatori sono girati di nuovi verso una nuova primavera economica. L'indice anticipatore Ocse dice che la crescita si è stabilizzata su livelli un po' meno alti di sei mesi fa. La fiducia sale (in Germania è al top). La disoccupazione e i consumi in Usa vanno molto meglio (la stagione natalizia sarà la più vivace da quattro anni). Gli emergenti galoppano. In questo quadro, l'Italia si distingue: chiude l'anno in stagnazione. La lenta crescita con cui era entrata nella crisi rispunta ora.

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Tags Correlati: Bce | Borsa Valori | Europa | Fed | Ocse | Tassi monetari

 

Tassi di interesse, valute, moneta
La dinamica dei tassi si fa facendo più variegata, in presa diretta con le tendenze dell'economia reale. La crescita in Usa è debole, intorno al 2%, la disoccupazione non scende (il che è costato caro al presidente Obama), la politica di bilancio è ipnotizzata dal cobra dei deficit all'11% del Pil, e quindi l'unica palla in campo è quella della politica monetaria. Non è sicuro che la fleboclisi mensile di tanti miliardi di dollari di liquidità aggiuntiva (acquisti di titoli da parte della Fed, con il torchio elettronico che va fuori giri) farà guarire il paziente, ma vale la pena tentare. Tanto più che gli ultimi dati sui saldi finanziari degli operatori privati - famiglie e imprese - confermano che queste e quelle scoppiano di salute.

Le imprese sicuramente (la loro situazione finanziaria descrive un surplus che è il più alto del dopoguerra); le famiglie, le cui finanze erano più fragili, stanno di buona lena ricostituendo i loro risparmi (oggi il loro surplus finanziario - risparmi meno investimenti in case - si può stimare attorno al 2% del Pil, il più alto da 25 anni), ma devono tener conto del fatto che si tratta di una lunga lena: il passato indebitamento era enorme e il deleveraging dovrà continuare per un buon tratto di tempo. In ogni caso, le disponibilità finanziarie esistono e, specie per le imprese, le polveri della spesa non sono bagnate: appena al cavallo torni la voglia di bere, l'acqua c'è in abbondanza.

In Europa, la buona salute dell'economia tedesca è principalmente "responsabile" delle tensioni sui tassi a breve che si sono manifestate ultimamente. Certamente, i dati di fondo della moneta continuano a rimanere espansivi. Un mezzo punto in più sui tassi a breve, quando questi erano schiacciati ai minimi storici, non compromette certo la ripresa, il buon andamento dei mercati azionari e la ripresa massiccia delle emissioni di obbligazioni limano il costo del capitale, e i tassi a lunga (sia per i governi che per famiglie e imprese) continuano bassi. Nel panorama complessivo delle condizioni monetarie l'unica fonte di restrizione sta nel cambio dell'euro, che si è rafforzato. Un fattore, questo, che consiglierà prudenza quando la exit strategy della Bce dovesse procedere a ulteriori passi.

In campo valutario, la debolezza del dollaro è fisiologica e non patologica. Gli Stati Uniti torneranno a crescere e, nel gioco dei determinanti del cambio i muscoli dell'economia compenseranno i timori (infondati) di inflazione e il differenziale dei tassi. Intanto, le valute degli emergenti (vedi grafico) si sono apprezzate di più di quelle dei paesi emersi. E questo, malgrado i titoli esagitati sulle guerre valutarie, è un buon contributo al riequilibrio dell'economia internazionale.

fabrizio@bigpond.net.au
l.paolazzi@confindustria.it

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