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Questo articolo è stato pubblicato il 24 dicembre 2010 alle ore 07:27.
Incassato il successo, non si deve aver paura di affinare la macchina e spiegare la riforma, con il dialogo con quella parte del mondo studentesco che ha protestato in modo non violento ed è stata giustamente ascoltata dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il problema è per tutti lo stesso ora che è passata una riforma che abbiamo sostenuto e criticato: diffondere e sviluppare il sapere per creare lavoro e produrre ricchezza.
Con il sì definitivo alla riforma non è stato sconfitto il '68, questi sono slogan buoni soltanto a ideologizzare il tema e perdere tempo. Non è stata nemmeno privatizzata l'università, questi sono slogan che si sentono da decenni, ogni volta che un governo, anche di sinistra, si avvicina alla cattedra della scuola o della facoltà. Con la riforma è stato fatto un passo avanti verso la modernizzazione degli atenei, nel senso che per la prima volta - lo hanno riconosciuto anche liberi professori non certo sempre teneri col governo, come Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera o Biagio De Giovanni sul Riformista - elementi di meritocrazia nella gestione delle università sono sanciti per legge in un paese in cui merito è spesso sinonimo del suo esatto opposto, colpa. Gli atenei saranno valutati, anche dagli studenti e da soggetti esterni. Le università saranno in competizione tra loro, non nel numero di studenti o di corsi o di cattedre, ma nei risultati e potranno ricevere risorse in proporzione ai successi o no.
Un po' come un'azienda? Sì, un po', ma che male c'è. Un limite ai vincoli di parentela come atout indispensabile nei curriculum dei concorsi, un solo mandato di sei anni per i rettori, peraltro sfiduciabili. Arriva il direttore generale, il manager dell'ateneo, con cda aperti all'esterno. E un po' di semplificazione: meno facoltà, fusioni tra università dove serve. Infine il tentativo di dire addio ai concorsi locali a vincitore più o meno predefinito, con l'abilitazione nazionale, provando a incentivare i giovani docenti – precari perché a tempo?, forse, ma almeno con una chance di provarci in più, negli anni di prova – a tornare sui banchi dell'università italiana, magari dopo un passaggio all'estero.