Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 24 dicembre 2010 alle ore 07:26.
«La morale di questa storia è duplice. Che, con l'accordo siglato ieri, la globalizzazione è entrata con forza dirompente nelle relazioni industriali italiane. E che la spinta all'efficienza, che ci tramortisce tutti quanti, viene dal maggiore sindacato americano, lo United Auto Workers, che si comporta come primo azionista del gruppo Chrysler-Fiat. E sa perché si muove da primo azionista? Semplicemente perché lo è».
Se c'è una cosa che ha saputo fare la tradizione comunista è stata congiungere storia e morale. In particolare il filone torinese è spesso risultato il più pragmatico e il meno disponibile, come invece è non di rado accaduto in altri rami del grande albero dell'italo-comunismo, a fare scadere la morale in moralismo. Usa parole dure e lucide Renzo Gianotti, senatore del Pci-Pds dal 1983 al 1994, per commentare la giornata di ieri.
Nelle fotografie del 1980 che ritraggono Enrico Berlinguer ai cancelli di Mirafiori, Gianotti è quello a sinistra del segretario generale del Partito. Allora era segretario della Federazione comunista di Torino. Oggi spiega così la pressione, magari non materiale ma strategico-psicologica, che Marchionne subisce da oltreoceano: il primo azionista ha accettato la riduzione della paga oraria dei suoi iscritti da 28 a 14 dollari e, per un sindacalista di Auburn Hills, è perfino difficile capire cosa sia l'intangibilità del contratto nazionale del lavoro.
Così, mentre l'occhio del vecchio comunista coglie l'essenzialità delle nuove questioni della globalizzazione, il presidente della Regione Piemonte, il leghista Roberto Cota, alla conferenza stampa di fine anno, a trattativa ancora in corso aveva spiegato a tutti che «l'esito positivo sarebbe un bel segnale dal punto di vista psicologico». Che il problema sia psicologico, senz'altro. La questione però è anche materiale. «L'investimento di Mirafiori - dice Tom Dealessandri, vicesindaco e sindacalista di lungo corso - è la conferma che a Torino si può investire nella manifattura. Due terzi degli occupati nel nostro manifatturiero si trovano nella fabbrica principale e nell'indotto. Senza l'investimento, si sarebbe creato un cratere in grado di inghiottire tutto». Dunque, in qualche maniera la paura, rientrata, su Mirafiori rappresenta la conferma che l'anima economica di Torino, e forse dell'intero paese, resta profondamente manifatturiera. «Il valore aggiunto e l'occupazione che si creano nella fabbrica - sottolinea Dealessandri - sono di gran lunga maggiori rispetto a quelli del terziario. Dobbiamo farcene una ragione».