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Questo articolo è stato pubblicato il 14 gennaio 2011 alle ore 07:44.
TORINO - Un respiro, ora profondo e vitale ora fragile e tossicchiante, lungo settantadue anni. Lo stabilimento di Mirafiori non è solo il simbolo della Fiat e dell'industria italiana. È anche uno dei cuori emotivi e politico-culturali di un Novecento italiano che è riuscito a emanciparsi da molte neghittosità e da altrettanti drammi.
Mirafiori sono i lavoratori comunisti e cattolici che, il giorno dell'inaugurazione, il 15 maggio del 1939 si mettono tutti d'accordo e non salutano Mussolini, tanto da fargli esclamare «Torino, porca città». Ma sono soprattutto i dirigenti, i quadri, i capireparto e gli operai che declinano per quasi un secolo l'organizzazione e le tecnologie secondo i diversi dettami che si sono succeduti: dal fordismo-tayloristico classico al world class manufacturing.
«In realtà – dice lo storico dell'economia Giuseppe Berta – il taylorismo puro viene introdotto da Vittorio Valletta a metà degli anni Cinquanta con la produzione della Seicento, quando grazie ai convogliatori le parti in lavorazione sono spostate meccanicamente». Testimonia a questo proposito Carlo Stroppiana, entrato a Mirafiori nel 1955 da operaio e uscito 41 anni dopo con la qualifica di vicedirettore delle Meccaniche: «Allora gli operai erano disposti a tre metri di distanza l'uno dall'altro: ognuno effettuava la sua lavorazione su ogni singolo pezzo, camminando a passo lento». Progressivamente nello spazio della fabbrica le macchine prendono il sopravvento e, per gli addetti delle Meccaniche, arriva il grande salto: «Meno lavoro e più responsabilità», sintetizza Stroppiana. Sì, perché se fino al giorno prima occorreva inserire centinaia di pezzi in una dentatrice o dentro a un tornio, adesso per ogni lavoratore c'è da badare al corretto funzionamento di 3-4 macchine a caricamento automatico: «Non si trattò di un passaggio facile, perché a molti addetti sembrava preferibile un lavoro ripetitivo e magari faticoso ma eseguito senza pensare». Non a caso è questa la prima stagione delle lotte operaie e studentesche, fra il 1968 e il 1969. «L'accordo del 5 agosto del 1971, quello che ancora adesso va bene alla Fiom e che è fondato sulle pause, sulla mensa e sui livelli di saturazione – ricorda Maurizio Magnabosco, il "papà" di Melfi – è puro fordismo. Tutto si modifica con l'Ict e l'automazione». Nella seconda metà degli anni Settanta, ecco i grandi cambiamenti tecnologici-organizzativi, risultato di una doppia spinta: l'impulso sindacale al modo umano di fare auto e i nuovi perimetri tecnologici. La rivoluzione, però, ha un prezzo: in un colpo solo dai reparti scompaiono i carrelli e i camion che trasferiscono i pezzi da un capannone all'altro, dunque non servono più né carrellisti né autisti, figure che «nel contesto di un reparto potevano arrivare a rappresentare il 30% del personale», racconta ancora Stroppiana. Infatti, la prima flessione del numero degli occupati è di quegli anni: dai 46mila addetti di fine 1967, record storico, si scende all'inizio degli anni Settanta a quota 38mila. È per questo che «buona parte delle riorganizzazioni erano viste con sospetto dai lavoratori», aggiunge Stroppiana: «L'equazione più macchine uguale meno lavoro ha sempre creato allarme. E non solo tra gli addetti più sindacalizzati».