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Questo articolo è stato pubblicato il 27 gennaio 2011 alle ore 07:41.
Sarà merito del suo carattere e dello spirito ereditato dalla sua terra, l'Emilia-Romagna. Sarà grazie a un talento naturale e all'intuito per gli affari. Sarà per una buona dose di fiducia in sé stesso.
Interpretazioni accettabili. L'unica parola che Nerio Alessandri non vuole proprio sentire per spiegare il successo della sua Technogym è fortuna. «Negli ultimi 15 anni in Italia si è fatta strada l'idea che per raggiungere obiettivi importanti esistano scorciatoie, alternative al duro lavoro, alla coerenza con le proprie idee e valori e al rispetto delle regole. Sono profondamente convinto che non sia così: fortunati non si nasce, forse si diventa». Il fondatore e oggi presidente di Technogym, in partenza per il World economic forum (Wef) di Davos, inizia così una conversazione accorata nei toni, a tratti preoccupati, ma lucidissima nella sostanza: il tempo è poco, se l'Italia vuole giocare un ruolo nel nuovo assetto mondiale, accanto a Bric (Brasile, Russia, India e Cina) e Mikt (Messico, Indonesia, Korea e Turchia), deve ritrovare fiducia e aprirsi al mondo. Ma per farlo serve un grandissimo sforzo culturale.
Alcuni sostengono che la formula del Wef sia superata. È d'accordo?
Per nulla: torno a Davos dopo la prima felice esperienza del 2010. L'anno scorso mi colpì la scarsa presenza di italiani: eravamo una decina, mentre i cinesi e gli americani erano almeno 200 e gli indiani un centinaio. Sia i paesi cosiddetti sviluppati che quelli emergenti, anche se il termine è ormai largamente superato, sono presenti a Davos e portano le loro idee. C'è uno scambio di esperienze, contatti e soprattutto visoni del mondo che permettono di proiettarsi nel futuro.
Ora tutti parlano di green economy, ma tutto iniziò a Davos 15 anni fa: il Wef è un laboratorio di ricerca intellettuale e imprenditoriale che permette di anticipare i cambiamenti, di guardare al futuro con curiosità, ma allo stesso tempo senza paura. Una cosa che in Italia non riusciamo più a fare.
Cosa manca, oggi, al nostro paese, per tornare protagonista, anche dal punto di vista della crescita economica?
Ci manca la cultura, in tutti i sensi. Non abbiamo più una vera cultura della crescita, dello sviluppo, dell'innovazione e dell'internazionalizzazione. È come se avessimo smesso di investire in tutti questi ambiti, forse pensando di poter vivere di rendita di quello che abbiamo costruito o ereditato da chi è venuto prima di noi. E poi, rispetto a Bric e Mikt, ci manca la fame, quella che avevano negli anni 70, come imprenditori e come cittadini. Fame di benessere che oggi ovviamente non può essere la stessa, perché il benessere ormai l'abbiamo, forse fin troppo. Dobbiamo ritrovare il piacere di migliorarci, di portare le nostre eccellenze all'estero. Ma per farlo dobbiamo ricostruire volontà, determinazione, ambizione.