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Economia Lavoro

Economisti e ingegneri tra i più richiesti

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Questo articolo è stato pubblicato il 30 gennaio 2011 alle ore 15:15.

«Si ricorda, dieci anni fa, quando c'è stata la bolla tecnologica? O quella della comunicazione?», chiede Marco Centra, ricercatore responsabile dell'area lavoro all'Isfol mentre cerca di spiegare le ragioni della difficoltà del rapporto tra i giovani e il lavoro. Come tutte le bolle anche queste sono state bucate dal corso del tempo, sgonfiando così l'occupazione che avevano creato. E lasciando molti laureati che avevano iniziato gli studi dieci anni fa, carichi di aspettative sul loro futuro professionale, ma senza grandi prospettive.

Dalla lettura storica del rapporto tra domanda e offerta di occupazione, così come è illustrata dai dati Unioncamere-Excelsior, emerge che al riparo dal mismatch ci sono solo gli economisti: è in economia la laurea più richiesta nel corso del decennio. Anzi, se nel 2001 servivano 15.499 laureati in questa materia, nel 2010 ne servivano 20.030. Non così per l'indirizzo informatico e delle tlc: nel 2001 le imprese chiedevano 12.122 di questi laureati, nel 2010 questi professionisti sono spariti dalla lista. Ci sono rimasti, in cima, ingegneri, medici e chimici, mentre sono iniziate a spuntare altre professioni, tra le più richieste. Come lo psicologo che nelle previsioni del 2001 era assente, mentre nel 2010 il mercato ne chiedeva 790. Per non dire degli urbanisti che con la trasformazione di molte città per i grandi eventi, in primis Roma e Milano, sono passati da 238 nel 2001 a 650 nel 2010. Oppure interpreti e traduttori che con la globalizzazione sono sempre più preziosi: nel 2001 ne servivano 700, nel 2010 quasi il doppio: 1.370.

Che ci sia un'esigenza di riqualificazione del lavoro in funzione del cambiamento delle necessità delle imprese è vero ma, come dice l'economista Emiliano Brancaccio, che insegna all'Università del Sannio, «il vero problema è che esiste un numero di posti vacanti per lavoratori qualificati nettamente inferiore al numero di giovani qualificati che oggi non lavorano. La questione della qualificazione diventa così secondaria». Leggendo la serie storica dei dati Excelsior Unioncamere emerge che se nel 2001 le assunzioni previste erano 713.558, nel 2010 sono diventate 551.950. Per i giovani ad aggravare il quadro, come spiega Marco Centra, c'è la crisi economica che ha accentuato una questione strutturale: «La prima reazione del mercato del lavoro alla crisi è stata il calo di assunzioni. Tenendo conto che i nuovi ingressi riguardano per oltre la metà i giovani, è chiaro che sono stati loro a risentire di più di questa fase difficile (si veda in alto il grafico Isfol che rielabora dati Istat)». Qualcosa però sta cambiando perché chi è giovane oggi, aggiunge Brancaccio, «sta prendendo coscienza del fatto che certi problemi si risolvono in due modi. Innanzitutto affrontando seriamente lo studio e il lavoro. E poi esprimendo giudizi severi che portino verso una politica economica adeguata».

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Per fare ripartire il ciclo virtuoso delle assunzioni potrebbe essere utile maggiore flessibilità? Forse, ma per Mario Mezzanzanica, professore della Bicocca e direttore scientifico del Crisp, «oggi la flessibilità contrattuale è garantita e le regole pur modificabili e migliorabili ci sono. Semmai bisogna superare la barriera d'ingresso al mercato del lavoro che è rappresentata dall'esperienza. Gli stage, adesso, sono più che mai una grande opportunità. In Lombardia abbiamo riscontrato che nel giro di 3 anni la maggior parte degli stagisti vengono poi assunti».

Lo conferma anche Lucia Gunella, responsabile del settore orientamento e placement dell'Università di Bologna che dice: «Ogni anno abbiamo circa 17mila studenti che svolgono tirocini e il feedback dei ragazzi e delle aziende è positivo». In futuro potrebbe aiutare anche a colmare il gap tra istruzione e lavoro «che con la globalizzazione si è amplificato – dice il prorettore dell'ateneo Roberto Nicoletti –. L'università ha una velocità di cambiamento più lenta dell'industria. Se dopo tre anni cambiano delle linee di produzione, le imprese vorrebbero laureati operativi da subito. Ma noi per cambiare un corso di studi impieghiamo 5 anni. Certo è che possiamo, attraverso l'orientamento, promuovere un percorso di conoscenza delle facoltà e anche del lavoro».

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