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Economia Lavoro

C'è il pericolo che dalla disillusione si cada nel rancore

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Questo articolo è stato pubblicato il 30 gennaio 2011 alle ore 15:07.

Una società può smarrire la propria ombra, cioè la capacità di farsi carico di chi viene dopo? Direi di sì se si guardano i dati Istat sulla disoccupazione giovanile: tra i 15 e i 24 anni ormai uno su tre è disoccupato (28,9%, la media europea è 19,8%). Ma c'è un dato ancora più pesante: siamo primi in Europa per numero di giovani tra i 15 e i 30 anni che hanno gettato la spugna. Abbandonano gli studi e non lavorano in un Italia dove già nel 2005 il guadagno mensile netto di un laureato era 1.151 euro. Numeri che "bruciano" una generazione che nell'ultimo quindicennio ha cavalcato giustamente l'idea della formazione permanente e del "tutti professionisti" (anche con Partita Iva) come via più breve per inseguire il sogno di autonomia, senso e reddito.

Ho spesso raccontato nei miei microcosmi il fare microimpresa, manifatturiera o terziaria, l'ossimoro di essere capitalisti personali senza aspettare la chiamata della grande impresa o della Pubblica amministrazione. I dati Istat mostrano una discontinuità storica che scava nell'antropologia dei soggetti, nel loro rapporto profondo con il sistema sociale, con una idea di futuro. Rimango convinto che un importante rivolo per svuotare il lago della disoccupazione e depotenziare il malessere sociale che questa produce continui ad essere l'autoimprenditorialità a patto di tenere conto che non basta inneggiare al "tutti imprenditori" perché un intero, lungo, ciclo è finito e oggi siamo nell'epoca della selezione non della proliferazione dell'impresa. E questo vale non solo per quel lavoro autonomo di prima generazione, fatto di artigiani e micro-imprenditori che tra fine anni 70 e fine anni 90 ha incarnato l'epopea del capitalismo molecolare, dei distretti e delle filiere, come imprenditori o subfornitori; vale anche per un lavoro autonomo di seconda generazione, metropolitano e cognitivo, che sull'onda della new economy e della creatività ha incarnato quel mito della società della conoscenza che tanta parte ha giocato nell'indirizzare le scelte formative, professionali e di vita delle due ultime generazioni di giovani. Che hanno tentato la scalata al cielo pensando di poter facilmente sostituire al capannone e alle reti corte dei loro padri il Pc e la simultaneità del web e di Facebook.

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Tags Correlati: Imprese Italia | Istat | Iva Acta | Libere professioni | Pubblica Amministrazione

 

Il salto del ciclo economico vale per tutti. E oggi i segnali di una disillusione di massa, anticamera del rancore di massa, ci sono tutti. In questi due anni di crisi li ho visti crescere su ambedue i lati in quella sorta di grande laboratorio a cielo aperto rappresentato dalla città infinita milanese dove l'intreccio tra l'artigiano brianzolo e il creativo milanese è all'ordine del giorno da almeno un trentennio. Qui tra i microimprenditori del mobile o della meccanica ad inizio 2010 quasi il 60 % degli intervistati ti dicevano che non investivano perché percepivano che tutto il sistema di regolazione economica e sociale che ne aveva accompagnato (e permesso) l'ascesa "non c'era più", perché i mercati non erano più stabili "come una volta" e i più giovani erano in fuga dalla cultura del capannone. Ma anche nel mondo patinato del terziario milanese la falce della crisi ha mietuto vittime ponendo con la durezza dei processi reali il tema della proletarizzazione delle professioni (il 76 % dei giovani professionisti milanesi oggi pensa che la propria professione sia in crisi di prestigio sociale); unificando la condizione dei più giovani trasversalmente alla divisione tra vecchie e nuove professioni, giovani avvocati e art director, facendo crescere la futura bolla della formazione. Da un parte, nell'operosa Brianza, lo sforzo per produrre più operai e tecnici specializzati e il richiamo all'autoimprenditoria può avere successo solo se sta dentro scelte strategiche che affrontano il nodo di cosa produrre, come produrre e su quali mercati vendere le nostre merci. Attenzione dunque a non limitarsi a riproporre a chi oggi ha vent'anni solo un paradigma culturale delle virtù manuali dell'Italietta operosa e risparmiosa quasi che globalizzazione e terziarizzazione siano semplici parentesi. Perché il rischio è di moltiplicare conflitti figli di quella che chiamo "infelicità desiderante", sentimento tipico dei giovani che vivono la contraddizione tra la voglia di star dentro all'ipermodernità con il mito dell'Essere che può tutto e una condizione sociale ed economica che allontana le concrete possibilità di esservi inclusi.

I numeri dell'Istat ci mettono in mezzo tra le rivolte dei giovani tunisini che vogliono senso e reddito e la locomotiva tedesca il cui mercato del lavoro continua a tirare. Il richiamo all'autoimprenditorialità funzionerà ancora solo se sta dentro la ricostruzione di una rete sociale oltre che economica che sostenga l'accesso a beni comuni che oggi appaiono sempre più imprescindibili per rimanere sul mercato: conoscenza, servizi, reti di comunicazione e welfare. Tutte cose che ci richiamano alla grande questione dei lavori, la loro rappresentanza e rappresentazione. Perché oggi, dentro le difficoltà della crisi, il campo della rappresentanza del capitalismo personale e del nuovo lavoro autonomo è divenuto un cantiere di cambiamenti. Per tutti, dagli oltre 2.600.000 commercianti e artigiani di Rete Imprese Italia alla galassia delle associazioni professionali del "nuovo terziario" fino al piccolo sindacato delle Partite Iva Acta e agli Ordini, si pone la questione se l'autoimprenditorialità sia davvero uno degli emissari che svuoterà il lago della disoccupazione potando i giovani a navigare nel mare del futuro.

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