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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2011 alle ore 08:11.
ROMA - «Nessun rischio, almeno per ora, che le nostre aziende disinvestano. La preoccupazione semmai è per le opportunità future che potremmo perdere in Libia». Anche per Massimo D'Aiuto, amministratore delegato di Simest, la finanziaria di sviluppo delle imprese italiane all'estero, sono giorni frenetici trascorsi contattando imprenditori e riesaminando progetti in cantiere nei paesi del Nord Africa. Con il timore che si debba archiviare la zona franca industriale concordata dal governo italiano e da quello libico nel 2009.
La Simest, controllata dal ministero dello Sviluppo economico, sottoscrive fino al 25% del capitale delle società estere partecipate da imprese italiane oppure, in alternativa, opera attraverso l'export credit a sostegno dei beni strumentali. Ottantanove, in tutto, le operazioni avviate negli ultimi sette anni in Nord Africa per un totale di 2,3 miliardi di investimenti e 800 milioni di capitale Simest. Nel dettaglio, se si guarda alla mappa delle partecipazioni (che hanno una durata massima di 8 anni) Egitto e Tunisia hanno conquistato rapidamente posizioni per 17 operazioni complessive, dal tessile all'edilizia all'agroalimentare. Solo una al momento in Marocco mentre, almeno fino allo scoppio dei moti in Cirenaica, era in corso l'iter per due partecipazioni in Libia, entrambe nel settore dell'edilizia. Tutto fermo, ora, e a tempo indeterminato.
Per fotografare la crisi di queste settimane, D'Aiuto parte dal dato economico più clamoroso: la dipendenza dal petrolio importato dalla Libia (23,3% del nostro fabbisogno) e, «ancor più preoccupante perché meno sostituibile», quella dal gas algerino di poco sotto il 30%. «Tra Algeria, Egitto, Marocco, Tunisia, Libia – prosegue D'Aiuto – il nostro export sfiora 12 miliardi di euro». Ma è impossibile ora dire come cambieranno questi numeri. Di certo, il caos in Libia rischia di far saltare uno dei progetti in prospettiva più interessanti, la costituzione di una zona franca industriale italiana a Misurata oggetto di una firma congiunta dei due ministri dello sviluppo meno di due anni fa.
È Tripoli, inevitabilmente, al centro dell'attenzione. Anche perché nel frattempo dagli altri fronti caldi del Nord Africa arrivano messaggi rassicuranti. «Abbiamo vissuto giorni difficili» racconta Silvio Albini, consigliere delegato del Cotonificio Albini, due stabilimenti in Egitto, dei quali uno avviato con una partecipazione Simest del 25%. «Per due settimane abbiamo tenuto chiusi gli impianti e i dipendenti italiani sono rientrati in Italia per una decina di giorni. Ora però abbiamo riavviato la produzione e il porto di Alessandria, dal quale dipendiamo, le dogane e gli altri uffici hanno ripreso a funzionare regolarmente. Sappiamo però che è una fase di transizione, l'incertezza durerà ancora a lungo».