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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2011 alle ore 10:43.
L'ultima modifica è del 18 giugno 2011 alle ore 10:43.

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Un meccanismo (quasi) perfetto. «Mica abbiamo ucciso nessuno». Distretto della concia di Arzignano, operoso Nord-Est. Un sistema di cartiere per la produzione di false fatture e di frodi sull'Iva la cui origine risalirebbe a trent'anni fa. Una truffa collettiva all'erario emersa alla fine del 2008, basata sulle pelli fatte arrivare in dogana dal Sud America e dal Sud Africa.

Nei giorni scorsi al tribunale di Vicenza quattro imprenditori sono stati rinviati a giudizio. La maschera pubblica della vicenda è Andrea Ghiotto: mazzette, calcetto, frodi, escort a chi doveva chiudere un occhio e la frase ripetuta a tutti «non ho rubato a nessuno». Un fenomeno corale: 180 società coinvolte, 200 imprenditori denunciati, sette funzionari dell'Agenzia delle entrate, quattro esponenti della Guardia di finanza, una decina di commercialisti. Diversi filoni investigativi, in questo strano mix di economia di territorio e d'illecito collettivo: l'evasione fiscale ha incubato la corruzione e ha generato la bancarotta fraudolenta. Fatture false per oltre un miliardo e mezzo di euro. L'Iva sottratta ammonta a 308 milioni. Qui sono girate due milioni e mezzo di tangenti.

Stefano Fracasso, sindaco dal 2004 al 2008, è professore di chimica al liceo scientifico Leonardo da Vinci di Arzignano: «Negli anni Settanta ‐ ricorda Fracasso ‐ il torrente Chiampo cambiava colore a seconda degli scarichi industriali». Non ha alcun cipiglio moralista nei confronti di quanto successo: «In Veneto lo Stato è spesso stato percepito come qualcosa di estraneo e d'intralciante. In ogni caso si tratta di un brutto episodio per la nostra comunità». Aggiunge un investigatore: «Nessuno degli imprenditori coinvolti ha mostrato un minimo senso di rimorso». Qualche tempo fa un documento di Confindustria Vicenza ha assunto una posizione intellettualmente onesta e insieme di ferma condanna: «Non è possibile negare che ci sia stato un periodo di crescita, a volte disordinata, accompagnato da comportamenti illeciti diffusi, così come l'esistenza di personaggi, che pur non essendo conciatori, si sono inseriti nel sistema e si sono arricchiti frodando l'erario. E non è neppure possibile negare come alcuni imprenditori si siano lasciati coinvolgere in meccanismi truffaldini, con guadagni facili ai danni dello Stato e con l'esercizio della concorrenza sleale».

Tutto questo ha radici storiche precise. «Viene da chiedersi ‐ riflette un conoscitore del Nord-Est come Paolo Feltrin ‐ se, in Italia, avrebbe potuto esservi industrializzazione senza evasione. Soprattutto con questi livelli di pressione fiscale». La valutazione del sociologo dell'Università di Trieste vale in particolare per il passato. «Mi domando ‐ continua ‐ se una condivisione comunitaria dell'evasione fiscale non sia anche una risposta patologica, in un settore a basso valore aggiunto come la lavorazione della concia, a una crisi interna di competitività industriale». (P. Br.)

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