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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2012 alle ore 06:47.

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Dal caso British gas, con la compagnia inglese che dopo 11 anni di autorizzazioni negate getta la spugna e rinuncia al progetto per il rigassificatore di Brindisi, è importante ricavare una lezione: oggi la competizione non è solo tra aziende, ma tra Paesi e tra territori all'interno dei vari Paesi, che sono in continua lotta per calamitare gli investimenti industriali stranieri e i grandi capitali internazionali. Purtroppo, sotto questo profilo, l'Italia ha ancora molto da imparare: soprattutto è chiamata a compiere un grande salto culturale, che deve partire dagli amministratori pubblici, perché sono loro a influenzare in modo decisivo le scelte localizzative delle multinazionali.
Lo dice Giuseppe Recchi, ingegnere 48enne, presidente dell'Eni e delegato di Confindustria per gli investitori esteri in Italia. Recchi è un esperto in materia, avendo per anni ricoperto alti incarichi dirigenziali per conto di General Electric negli Stati Uniti e in Europa. «Nel mondo di oggi – spiega Recchi al Sole 24 Ore – la capacità di attrarre investimenti produttivi dall'estero costituisce un pilastro per le politiche di sviluppo di un Paese. I territori sono come dei «negozi» e il loro obiettivo è conquistare clienti. Gli amministratori locali (comuni, province, regioni) sono i responsabili di questo negozio e dovrebbero avere la responsabilità di procacciare clienti, non di allontanarli. Le amministrazioni locali italiane sono chiamate a un forte cambiamento culturale se vogliono assicurare sviluppo e benessere alle rispettive comunità. In caso contrario, si rischia l'impoverimento perché i capitali internazionali si rivolgeranno altrove». Secondo Recchi, la domanda che si pone una grande multinazionale quando guarda al nostro Paese è semplice: è facile o è difficile investire in Italia? Se è difficile la sguardo va altrove, in direzione di nuovi paesi e nuovi territori. E l'Italia perderà un'occasione di sviluppo e molto spesso di arricchimento tecnologico.
British gas, che ha atteso 11 anni prima di gettare la spugna di fronte a un processo autorizzativo infinito, è stata fin troppo paziente. «È corretto – continua Recchi – tenere conto delle osservazioni che si levano dal territorio. Ma in un quadro di regole certe. L'ideale sarebbe la convocazione di una conferenza dei servizi iniziale, nella quale tutte la parti in causa fissano le condizioni per l'investimento. Se l'impresa accetta queste condizioni, le rispetta e vi si adegua, poi non ci deve essere più alcun ostacolo all'investimento. Basta con i ricorsi infiniti, le opposizioni dei più piccoli comitati locali, i voltafaccia degli amministratori locali». L'Italia, insiste il presidente dell'Eni, deve imparare a vendere il proprio prodotto, cioè il proprio territorio, nel grande negozio globale. Perché i capitali stranieri generano ricchezza, creano posti di lavoro, sono motore di sviluppo per le comunità locali. «Nel caso di Brindisi – ricorda Recchi – British gas non solo avrebbe costruito il rigassificatore, ma avrebbe favorito la nascita di un distretto del freddo con ulteriori posti di lavoro a quelli creati dal terminal di rigassificazione. Quando si dice no a un investimento produttivo internazionale si dovrebbe sempre aver presente questo tipo di conseguenze». Con la rinuncia al rigassificatore di Brindisi sono svaniti 800 milioni di investimento, circa mille posti di lavoro nei quattro anni necessari alla costruzione dell'impianto, ulteriori 250 posti di lavoro una volta che il terminal fosse entrato in attività.
«È questo tipo di ricchezza che va dispersa – osserva Recchi – e in una fase di rilancio dell'economia il nostro Paese non se lo può permettere. Oggi ci sono moltissime aziende, in giro per il mondo, ricchissime di liquidità, in cerca delle migliori occasioni per investirla. Il Paese ha un'occasione straordinaria per dare una svolta alla propria economia aprendo le porte con convinzione agli investitori industriali internazionali. Dobbiamo intercettare questa liquidità e portarla in Italia. Regioni come Piemonte e Lombardia si stanno impegnando in tal senso, ma tutti gli enti locali, se hanno veramente a cuore il benessere e il futuro delle loro comunità, dovrebbero creare le condizioni per lo sviluppo, non per il depauperamento del tessuto industriale locale. È questa la sfida a cui siamo chiamati».
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