Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 09 ottobre 2012 alle ore 19:18.

My24

Prendiamo in considerazione gli Stati Uniti. Nessuno tiene conto, ad esempio, del deficit di conto corrente della Florida rispetto al resto del paese, anche se possiamo immaginare che sia piuttosto elevato (dato che nello stato risiedono molti pensionati che vivono di benefici provenienti da altre fonti).

Nel caso in cui il governo della Florida dovesse andare in bancarotta, le sue banche continuerebbero ad operare normalmente in quanto regolamentate dalla giurisdizione federale. Inoltre, se le banche della Florida dovessero fallire, le finanze pubbliche sarebbero comunque protette dato che gli istituti bancari sono, in definitiva, responsabilità delle istituzioni federali.

In caso di disoccupazione in Florida, i sussidi dei lavoratori disoccupati provengono da Washington. E quando gli elettori della Florida rimangono delusi dall’economia non protestano per le strade della capitale, bensì fanno pressione sui rappresentanti del Congresso affinchè apportino dei cambiamenti alle politiche federali. Nessuno potrebbe d’altra parte sostenere che gli Stati Uniti abbiano un alto livello di sovranità.

Anche la relazione tra sovranità e democrazia viene male interpretata. Non tutte le restrizioni sull’esercizio della sovranità risultano essere non democratiche. Gli scienziati della politica parlano di processo di delega democratica (ovvero l’idea secondo cui uno stato sovrano decide volontariamente di avere le mani legate, tramite accordi internazionali o la delega ad agenzie autonome, al fine di ottenere risultati migliori). La delega della politica monetaria ad una banca centrale indipendente è l’esempio più calzante: nel processo di stabilizzazione dei prezzi, la gestione quotidiana della politica monetaria viene infatti protetta dalla politica.

Anche se alcune limitazioni selettive alla sovranità potrebbero migliorare la performance democratica, non c’è alcuna garanzia che tutti i limiti imposti da un’integrazione dei mercati possano avere lo stesso risultato. Nelle politica interna, il processo di delega è calibrato attentamente e limitato a poche aree legate a tematiche altamente specializzate in cui le differenze di parte non sono enormi.

Un vero processo di globalizzazione in grado di promuovere la democrazia dovrebbe rispettare questi limiti ed imporre solo delle restrizioni conformi ad un processo di delega democratico, assieme ad una serie di norme procedurali (come la trasparenza, la reponsabilità, la rappresentitività, l’uso di prove scientifiche, ecc.) in grado di migliorare la deliberazione democratica a livello nazionale.

Come dimostra l’esempio americano, è possibile rinunciare alla sovranità (come hanno fatto la Florida, il Texas, la California e gli altri stati degli Stati Uniti) senza rinunciare alla democrazia. Ma combinare l’integrazione dei mercati con la democrazia richiede la creazione di istituzioni politiche sovranazionali che siano rappresentative e responsabili.

Il conflitto tra democrazia e globalizzazione diventa più aspro nel momento in cui il processo di globalizzazione finisce per limitare l’esercizio delle politiche preferenziali a livello nazionale senza un’espansione compensativa dello spazio democratico a livello globale/regionale. L’Europa è già dalla parte sbagliata di questo confine, proprio come dimostrano le rivolte in Spagna e Grecia.

Ed ecco il punto in cui il mio trilemma inizia ad essere mordace. Non si possono avere globalizzazione, democrazia e sovranità nazionale allo stesso tempo, ma bisogna scegliere due elementi tra questi tre.

Se i leader europei desiderano mantenere la democrazia, devono scegliere tra l’unione politica e la disintegrazione economica. Devono da un lato rinunciare in modo esplicito alla sovranità economica, oppure metterla, in modo attivo, a servizio dei suoi cittadini affinché ne traggano beneficio. La prima opzione implicherebbe ammettere la propria colpa di fronte all’elettorato e creare uno spazio democratico sovranazionale. La seconda opzione comporterebbe invece una rinuncia all’unione monetaria per poter implementare delle politiche monetarie e fiscali nazionali con l’obiettivo di una ripresa di più lungo termine.

Più questa scelta viene posticipata, maggiori saranno i costi politici ed economici che dovranno in definitiva essere pagati.

Traduzione di Marzia Pecorari

Dani Rodrik, professore di economia politica internazionale presso l’Università di Harvard, è autore di The Globalization Paradox: Democracy and the Future of the World Economy (Il paradosso della globalizzazione: la democrazia ed il futuro dell’economia mondiale, ndt).

Copyright: Project Syndicate, 2012.

Shopping24

Dai nostri archivi