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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2013 alle ore 11:19.

Emerse rapidamente, in particolare a Berlino, la convinzione errata che si trattava di una crisi di bilancio, confondendo (eccetto che per la Grecia) i sintomi con le cause. Fatto sta, comunque, che non potendo più accedere o quasi ai mercati del prestito, i Paesi colpiti dalla crisi dovevano dare una stretta ai conti pubblici, nonostante la grave recessione in atto. E stretta è stata: fra il 2009 e il 2012, secondo il Fondo monetario internazionale, il disavanzo di bilancio strutturale è cresciuto del 15,4 per cento del Pil potenziale in Grecia, del 5,1 per cento in Portogallo, del 4,4 per cento in Irlanda, del 3,8 per cento in Spagna e del 2,8 per cento in Italia. Questa combinazione di crisi finanziarie e risanamento dei conti pubblici ha provocato pesanti recessioni: fra il primo trimestre del 2008 e il quarto trimestre del 2012, il Pil è calato dell'8,2 per cento in Portogallo, dell'8,1 per cento in Italia, del 6,5 per cento in Spagna e del 6,2 per cento in Irlanda. Fin qui tutto malissimo.

Malauguratamente, anche i Paesi dell'Eurozona più in salute si sono conformati rigorosamente al mantra della stabilità e anche loro hanno chiuso i rubinetti della spesa pubblica. L'Fmi prevede che il disavanzo di bilancio corretto per gli effetti del ciclo nell'Eurozona si ridurrà del 3,2 per cento del Pil potenziale fra il 2009 e il 2013, scendendo ad appena l'1,1 per cento del Pil. E come se non bastasse la Banca centrale europea continua a mostrare un interesse quasi nullo per le misure di stimolo alla domanda. Il risultato, prevedibile, è che l'economia europea è ferma al palo, con il Pil, nel quarto trimestre del 2012, che è agli stessi livelli del terzo trimestre del 2010.
Nel frattempo, l'inflazione sta scendendo al di sotto del target del 2 per cento fissato dalla Bce. Il taglio della scorsa settimana di un quarto di punto percentuale del tasso di riferimento non cambierà quasi nulla. Con uno shock esterno di grosse proporzioni c'è il rischio che l'inflazione si trasformi in deflazione, aggravando ulteriormente la situazione dei Paesi in crisi. E anche se si riuscisse a sventare il pericolo della deflazione, la speranza che questi Paesi possano cavarsi d'impaccio con la crescita economica, attraverso la domanda dell'Eurozona e il riequilibrio interno, nell'attuale contesto macroeconomico è pura fantasia.

Rimane quindi la strada dell'aggiustamento esterno. Secondo l'Fmi, la Francia quest'anno sarà l'unico Paese importante dell'Eurozona a registrare un deficit nel saldo con l'estero. La previsione del Fondo è che nel 2018 tutti i membri dell'euro tranne la Finlandia saranno esportatori netti di capitali. L'Eurozona nel suo complesso avrà un surplus delle partite correnti del 2,5 per cento del Pil. Insomma, riequilibrio attraverso la domanda esterna: quello che ci si aspetterebbe da un'Eurozona germanica.
Se volete vedere fin dove si spinge questa follia, andatevi a leggere lo studio della Commissione europea sugli squilibri macroeconomici. I parametri utilizzati sono rivelatori: un passivo delle partite correnti del 4 per cento del Pil è trattato come un segnale di squilibrio; per l'attivo, invece, la soglia di squilibrio è fissata al 6 per cento. È un caso che coincida esattamente con l'attivo della Germania? Ma la cosa ancor più grave è che lo studio non tiene minimamente conto delle dimensioni di un Paese, al momento di valutare il suo contributo agli squilibri. In questo modo il ruolo della Germania viene cancellato, nonostante il suo eccesso di risparmio provochi difficoltà enormi quando i tassi di interesse sono vicini allo zero. Omissioni del genere fanno perdere qualsiasi credibilità a questa analisi degli «squilibri».

Le conseguenze degli sforzi per costringere l'Eurozona a ricalcare la strada per l'aggiustamento percorsa dalla Germania negli anni 2000 sono pesanti, innanzitutto perché rendono altamente probabile una stagnazione prolungata per l'Eurozona, soprattutto nei Paesi colpiti dalla crisi. Peraltro, se dovesse cominciare a funzionare, l'euro probabilmente aumenterebbe di valore, accrescendo i rischi di deflazione. Inoltre, particolare di non poca importanza, un'Eurozona in attivo nel saldo con l'estero rappresenterebbe uno shock recessivo per l'economia mondiale. Chi avrebbe le capacità e la volontà per compensarlo?
L'Eurozona non è una piccola economia aperta, è la seconda economia mondiale. È troppo grande, e troppo fragile la competitività esterna dei suoi Paesi più deboli, perché una strategia di aggiustamento economico e crescita basata su variazioni rilevanti nel saldo con l'estero possa essere praticabile. L'Eurozona non può sperare di costruire una ripresa solida su queste basi, come fece la Germania nei ruggenti anni 2000. Quando si acquisirà questa consapevolezza, le pressioni politiche interne per un cambio di rotta diventeranno inarrestabili.
L'Europa non diventerà una Germania più grande. È assurdo pensare che possa mai succedere. Eurolandia deve trovare una soluzione più equilibrata alle sue difficoltà oppure è destinati a frantumarsi. Qual dei due scenari si realizzerà? Questa è la grande domanda.
Copyright The Financial Times Limited 2013
(c) 2013 The Financial Times Limited
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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