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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2013 alle ore 07:19.

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Il premier giapponese, Shinzo AbeIl premier giapponese, Shinzo Abe

Gli sforzi del Giappone per rimettere in moto la sua economia la settimana scorsa hanno incontrato qualche difficoltà: i rendimenti dei titoli di Stato sono aumentati e i prezzi delle azioni sono calati. Qualcuno si è affrettato a proclamare il fallimento dell'Abenomics, il piano di riforme lanciato dal primo ministro Shinzo Abe. È ridicolo: l'Abenomics può sicuramente fallire, ma non perché salgono i rendimenti dei titoli di Stato o perché il mercato azionario barcolla. Il più che necessario programma giapponese per la ripresa ha dei rischi davanti a sé, ma quello che è successo la settimana scorsa è assai poco indicativo al riguardo.

Sì, il rendimento dei titoli di Stato decennali giapponesi è salito di 347 punti base (0,347 punti percentuali) rispetto al 6 maggio, ma resta comunque bassissimo, appena lo 0,91 per cento, lo stesso livello di poco più di un anno fa. L'indice azionario Nikkei è calato del 9,5 per cento fra il 22 e il 27 maggio, ma non ci scordiamo che fra il 13 novembre 2012 il e il 22 maggio 2013 era cresciuto dell'80 per cento. Lo yen si è rivalutato leggermente rispetto al dollaro, la settimana scorsa, ma rispetto a inizio ottobre ha perso comunque il 23 per cento.

Come interpretare questi movimenti, se non li si vuole considerare fluttuazioni di corto respiro, forse prive di importanza? Paul Krugman, sul New York Times, sostiene che si vuole vedere nella caduta del mercato azionario qualcosa di più di una tempesta passeggera, le cause possono essere tre: i timori per una crescita economica inferiore a quanto sperato, i timori per il debito pubblico giapponese o i timori sulla risolutezza della Banca del Giappone. Nel primo caso si spiegherebbe la caduta del mercato azionario, ma non l'impennata dei rendimenti dei bond. Nel secondo caso si spiegherebbe l'aumento dei rendimenti, ma non quello dello yen. Nel terzo caso invece si spiegherebbe tutto: crescita dei rendimenti, calo della Borsa e rafforzamento della valuta; il tutto come reazione a una politica monetaria meno espansiva di quella promessa in questo momento. Krugman conclude che la spiegazione plausibile è quest'ultima.

Questa analisi però riguarda il brevissimo termine. Sul lungo termine i rendimenti dei titoli di Stato rimangono nettamente al di sopra del loro punto minimo (circa lo 0,4 per cento), e il mercato azionario è su del 63 per cento rispetto al punto più basso, che aveva toccato a novembre, mentre lo yen è calato parecchio rispetto ai record toccati non molto tempo addietro.

Il quadro d'insieme, insomma, suggerisce che gli investitori sono ancora convinti che la Banca del Giappone e il Governo sono determinati a portare avanti le nuove politiche. La crescita economica annualizzata del 3,5 per cento nel primo trimestre dell'anno probabilmente ha poco a che fare con le muove misure, ma comunque è una buona notizia.

Peraltro, è inevitabile che il cambiamento di rotta nella politica economica del Giappone produca effetti destabilizzanti. Secondo alcuni membri del consiglio direttivo della Banca del Giappone, l'orientamento di politica economica è confuso, perché l'obbiettivo è al tempo stesso far crescere l'inflazione e far diminuire i tassi di interesse. La volatilità del mercato obbligazionario ha anche attirato critiche nei confronti di Haruhiko Kuroda, il nuovo governatore. Secondo qualcuno le banche, a causa delle perdite sui titoli di Stato giapponesi in loro possesso, non potranno e non vorranno aprire i rubinetti del credito, compromettendo la ripresa.

Nel frattempo, dall'estero piovono critiche per la svalutazione dello yen. Molti, soprattutto in Asia orientale, concordano con David Li, dell'Università Tsinghua, che ha detto che il mondo finora, invece di un aumento dell'inflazione giapponese, «ha visto unicamente una drastica svalutazione dello yen. La svalutazione è iniqua verso gli altri Paesi e insostenibile». Takashi Ito, in una lettera al Financial Times, ha replicato così: «Trovo semplicemente insopportabile che Paesi che hanno svalutato o manipolato la loro divisa possano accusare il Giappone di svalutare lo yen». Comincia ad assomigliare a una guerra valutaria.

Come dobbiamo giudicare dibattiti di questo tipo? Per prima cosa, uno sforzo per mettere fine alla deflazione e rilanciare la crescita deve per forza far crescere i rendimenti dei titoli di Stato giapponesi: un'economia stabile con un tasso di inflazione annuo del 2 per cento non può avere tassi di interesse a lungo termine di mezzo punto percentuale. Il piccolo balzo in avanti dei tassi della scorsa settimana, quindi, non è il segno di un insuccesso della nuova politica economica: al contrario, è un timido indizio del suo successo.

Ma se si vuole che i tassi di interesse reali scendano è fondamentale che i tassi di interesse non crescano più dell'inflazione attesa. La Banca del Giappone deve orientare la traiettoria dei tassi a lungo termine. Dev'essere disposta a comprare senza limiti quando i tassi di interesse superano un certo tetto (variabile, presumibilmente). Può sostenere questa politica indicando un periodo durante il quale manterrà a zero i tassi a breve termine, con un certo margine di rialzo: i tassi di interesse potrebbero rimanere a zero, per esempio, finché il livello dei prezzi (non il tasso di inflazione) non raggiungerà una certa cifra. Con metodi del genere la Banca del Giappone potrebbe riuscire a produrre un certo grado di prevedibilità.

In secondo luogo, il Governo giapponese e la Banca centrale devono trovare qualche metodo valido per gestire la montagna del debito pubblico. Qualunque soluzione non potrà prescindere dal passo radicale di monetizzarlo, che renderà probabilmente necessario alzare in permanenza il livello delle riserve obbligatorie per le banche. Sarebbe una tassa sui depositanti, ma costringere le banche a fornire un finanziamento permanente e a buon (buonissimo) mercato allo Stato in Giappone ha senso, perché le prospettive di crescita sono scarse, un rilancio deciso dell'indebitamento del settore privato è improbabile e il debito pubblico è colossale. Rendimenti reali bassi (probabilmente negativi) sui depositi bancari potrebbero produrre anche un deprezzamento dello yen, con conseguente aumento dei prezzi delle attività e della spesa privata. Tutti questi effetti sarebbero più che auspicabili.

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