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Questo articolo è stato pubblicato il 14 giugno 2013 alle ore 13:01.

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La periferia dell’Eurozona soffre sia di un accumulo di debiti che di un problema di flussi. Ha accumulato debiti troppi massicci e una competitività troppo scarsa per raggiungere il saldo con l’estero senza scatenare una significativa deflazione interna e disoccupazione. Ciò che serve è un duplice approccio che affronti contemporaneamente entrambi i problemi. L’approccio prevalente – affrontare il debito con l’austerità fiscale e la competitività con le riforme strutturali – ha prodotto livelli di disoccupazione che minacciano la stabilità sociale e politica.

Allora, cosa si può fare di diverso?

Il modo più diretto per affrontare il problema del debito è una cancellazione, insieme alla ricapitalizzazione di quelle banche che patiscono di conseguenza ampie perdite. Potrebbe sembrare una mossa estrema, ma riconosce semplicemente la realtà secondo cui gran parte del debito esistente non sarà estinto senza nuovi flussi di finanziamenti ufficiali. Come riconosce ora il Fmi, sarebbe stato meglio ristrutturare i debiti greci dall’inizio che intraprendere una operazione di mantenimento.

La riduzione del debito di per sé spiana la strada per la crescita, ma non la innesca direttamente. Servono politiche che affrontino direttamente il ribilanciamento delle spese all’interno dell’Eurozona e la riallocazione delle spese all’interno delle economie periferiche, tra cui politiche per rilanciare la domanda in tutta l’Eurozona e stimolare una maggiore spesa nei Paesi creditori, soprattutto in Germania, politiche volte a ridurre i prezzi non-tradable, politiche sui redditi per ridurre i salari del settore privato delle economie periferiche in modo coordinato, un maggior target di inflazione della Bce per dare spazio ai movimenti nei tassi di cambio mediante cambiamenti nominali.

Queste politiche richiedono che la Germania accetti un’inflazione più alta ed esplicite perdite bancarie, e ciò implica che i tedeschi possano accettare una storia diversa sulla natura della crisi. E ciò significa che i leader tedeschi devono dipingere la crisi non come un gioco di moralità che contrappone i pigri e spreconi cittadini del Sud ai parsimoniosi e laboriosi cittadini del Nord, ma come una crisi di interdipendenza in un’unione economica (e politica nascente). I tedeschi devono rivestire un grande ruolo nella risoluzione della crisi come ha fatto nello scatenarla.

Anche la Francia con buona probabilità avrà un ruolo cruciale; è abbastanza importante che se appoggiasse completamente i Paesi periferici, la Germania resterebbe isolata e dovrebbe trovare una risposta. Ma sinora la Francia intende distaccarsi dai Paesi del Sud, per evitare di essere trascinata con loro nei mercati finanziari.

Infine, un’unione economica europea che funzioni richiede una maggiore omogeneità strutturale e convergenza istituzionale (soprattutto nei mercati del lavoro) tra i suoi Paesi membri. L’argomentazione tedesca contiene qualcosa di fondato: nel lungo periodo i Paesi dell’Ue devono darsi una mano se intendono abitare nella stessa dimora.

Ma l’Eurozona deve affrontare un problema a breve termine che è più keynesiano in natura, e per il quale i rimedi strutturali a lungo termine sono inefficaci alla meglio e dannosi alla peggio. Troppa attenzione sui problemi strutturali, a scapito delle politiche keynesiane, renderà il lungo periodo irraggiungibile, e quindi irrilevante.
Traduzione di Simona Polverino

Dani Rodrik, professore di economia politica internazionale all’Università di Harvard, è autore del libro Il paradosso della globalizzazione. La democrazia e il futuro dell’economia mondiale.

Copyright: Project Syndicate, 2013.

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