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Questo articolo è stato pubblicato il 02 luglio 2013 alle ore 11:16.

Il piano di Li Keqiang

La ragione dell’inazione di Li Keqiang è apparsa chiara all’inizio di giugno, quando il presidente Xi Jinping ha dichiarato alla sua controparte americana, Barack Obama, che la Cina aveva deliberatamente rivisto il target di crescita verso l’alto, al 7,5%, allo scopo di perseguire le riforme strutturali finalizzate a sostenere uno sviluppo economico stabile e prolungato. Considerando che la Cina si stava muovendo verso tali riforme prima che la crisi economica globale del 2008 spingesse l’ex premier Wen Jiabao a lanciare il piano di stimoli da 4mila miliardi di yuan, la dichiarazione di Xi Jinping suggerisce che il nuovo governo tenti di ripristinare i fondamentali economici pre-2008.

Nel 2005 la Cina sperimentava l’apprezzamento valutario, che, come hanno dimostrato altre economie in rapida crescita dell’Asia orientale, può stimolare il governo e le imprese a perseguire riforme strutturali e ammodernamenti industriali. Mentre da un lato il successivo incremento di investimenti ufficiali in capitale fisso – che è cresciuto del 32% solo nel 2009 – ha ritardato le riforme strutturali, dall’altro a catturare la scena ci sono una capacità produttiva in eccesso e una bolla immobiliare, due problemi sempre più diffusi e radicati.

Il governo ora deve dispiegare gli ultimi resti del superinvestimento del 2008-2010 alimentato dagli stimoli, per quanto doloroso possa essere. Ciò significa consentire all’economia di continuare a rallentare, mantenendo al contempo politiche macroeconomiche relativamente rigorose che inducano i governi locali e il settore aziendale a trovare nuove fonti di crescita.

La combinazione di shock esterni e pressione interna per i salari in crescita può fungere da potente incentivo per far sì che governi e imprese perseguano le riforme strutturali. Ad esempio, le aziende delle regioni costiere dipendenti dall’export subiscono il peso dell’apprezzamento del renminbi dal 2004. Quando il rallentamento economico ha accelerato la rilocalizzazione di numerose ditte manifatturiere nelle province dell’entroterra o nei Paesi confinanti, quelle nelle regioni costiere hanno iniziato a invocare una maggiore apertura, riforme strutturali più profonde e l’ammodernamento industriale.

L’idea che Li Keqiang possa tollerare in futuro una crescita più lenta solo al di sopra di una soglia particolare si basa sulla convinzione che la crescita del Pil al di sotto dell’8% danneggerebbe lo sviluppo economico invece che aiutarlo e porterebbe all’instabilità sociale. In effetti, se la pressione della disoccupazione fosse diventata profonda oggi come lo è stata negli anni Novanta, il prolungato rallentamento economico avrebbe indubbiamente accelerato gli interventi governativi.

Ma nell’ultimo decennio i cambiamenti strutturali all’economia cinese hanno causato una significativa flessione della pressione legata alla disoccupazione – un trend che può essere corroborato dagli incrementi salariali a tutto campo. Ora le condizioni sono molto favorevoli per costruire un’economia più stabile e più forte come auspica Li Keqiang – e la Cina.
Traduzione di Simona Polverino

Zhang Jun è professore di economia e direttore del Centro cinese per gli studi economici presso l’Università Fudan di Shanghai.

Copyright: Project Syndicate, 2013.

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