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Questo articolo è stato pubblicato il 24 luglio 2013 alle ore 07:38.

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Meno innovazione, più disuguaglianza

Si discute molto di questi tempi di due idee che dovrebbero ridare slancio al dinamismo della nazione.
Alcuni osservatori attribuiscono il grosso dell'innovazione dell'economia americana - nuovi prodotti e nuove tecniche – alle applicazioni commerciali di recenti progressi scientifici. Si sostiene, da questa ottica, che questo flusso di progressi scientifici si sia in buona parte prosciugato, con scarse riserve negli ultimi anni, al punto che l'innovazione americana è rimasta senza combustibile. Questi esperti affermano anche che aumentando i finanziamenti pubblici per la ricerca scientifica sarebbe possibile tornare ad alimentarne il flusso, e ciò creerebbe nuove opportunità di innovazione in un imprecisato futuro.

Questa tesi però si basa interamente su una premessa sbagliata. Non ci sono prove in virtù delle quali l'innovazione in America sia o sia stata di intralcio ai progressi scientifici. Alcuni storici reputano che le innovazioni nel XIX secolo sono state molte più delle conquiste scientifiche. La miriade di nuovi prodotti negli ultimi decenni è nata per lo più da idee commerciali o mettendo insieme varie idee, non da nuovi progressi scientifici.

Un approccio diverso, sostenuto da alcuni economisti e policymaker, è quello dell'esplicita adozione di una politica industriale. Si sostiene che il governo potrebbe incentivare l'innovazione nel settore privato fornendo finanziamenti per lo sviluppo e commercializzando i nuovi prodotti o sistemi nelle aziende o nelle industrie che offrono la promessa, quanto meno dal punto di vista del governo, di poter dare un forte slancio all'innovazione. Il presidente Obama ha implicitamente dato il proprio avallo a questo approccio. Nel suo discorso sullo Stato dell'Unione del mese scorso, si è impegnato a trasformare l'America in "un polo di attrazione per nuovi posti di lavoro e per la produzione", e ha parlato in modo positivo di un "istituto per l'innovazione produttiva" a Youngstown, in Ohio, che utilizza stampanti tridimensionali e ha appena annunciato l'apertura di altri tre centri produttivi, che lavoreranno in collaborazione con i dipartimenti della Difesa e dell'Energia per trasformare regioni rimaste indietro a causa della globalizzazione in centri globali di posti di lavoro nel settore dell'hi-tech".

Questa tesi secondo la quale il governo sarebbe efficacemente in grado di prendere decisioni prese in passato da un settore privato che funzionava molto bene solleva però qualche serio dubbio. Certo, le aziende nel settore privato tendono a commettere errori quando decidono di sviluppare nuovi prodotti, dato che la loro fattibilità, le spese e il modo col quale il mercato li accoglierà sono informazioni completamente ignote. La difficoltà di una politica industriale nazionale è che essa affida quelle decisioni nelle mani dei funzionari pubblici, ben lontani dall'esperienza e dalle intuizioni dalle quali le aziende attingono per un'innovazione dinamica. È già abbastanza difficile per i venture capitalist e gli investitori della prim'ora prendere le decisioni giuste. Ma è del tutto inimmaginabile che il governo possa farlo altrettanto bene. Oltretutto, sussiste un rischio morale. Varare e gestire una politica industriale comporta il rischio che i funzionari pubblici – forse inconsciamente – facciano ciò che più giova alle loro prospettive di carriera politica, più che ciò su cui concorderebbero qualora non fossero direttamente coinvolti.

Ma allora, che cosa si può fare concretamente per affrontare e risolvere la recessione nel campo dell'innovazione e la crescente disuguaglianza sociale che a essa si accompagna? Indubbiamente, si possono prendere provvedimenti efficaci e mirati alla risoluzione di determinate disuguaglianze. Mettere a disposizione dei datori di lavoro alcuni sussidi per assumere lavoratori a basso reddito è sicuramente un provvedimento che si potrebbe prendere per porre rimedio a una disuguaglianza particolarmente grave. Non c'è tuttavia modo di ripristinare quel senso di uguaglianza che prevalse alla fine degli anni Sessanta senza porre rimedio ai mali stessi che hanno fatto sì che quelle disuguaglianze si allargassero: la contrazione dell'innovazione di alto livello a una manciata di aziende e il conseguente rallentamento della crescita economica al ritmo di una lumaca.

Sono convinto che un ritorno alla crescita della produzione e a un'inclusione economica ampia come in passato richiederà niente di meno che un revival di quel vigoroso dinamismo che ha puntellato quella performance.
Questo indispensabile risveglio richiederà una riforma del settore finanziario e del settore imprenditoriale. Nel settore finanziario è basilare porre fine alla pianificazione a breve termine che indebitamente fa sì che ci si concentri sul raggiungimento di obiettivi di rendimento trimestrali invece che puntare su una redditività e una crescita sul più lungo periodo. La dipendenza degli istituti finanziari dalla liquidità ha reso meno attraente il prestito alle imprese, mentre la dipendenza da investimenti diversificati ha lasciato molte poche istituzioni finanziarie desiderose di fare soldi come ai vecchi tempi, di prestare capitali o investire in progetti finalizzati alla realizzazione di nuovi prodotti o nuove tecniche.

Nel settore delle imprese, è indispensabile porre fine alle lotte interne alle aziende affermate, alla miopia dei dirigenti che sanno di avere soltanto un numero limitato di anni nei quali raggranellare il massimo dei bonus che riescono a mettere insieme. Una migliore vigilanza sul comportamento delle aziende da parte dei consigli di amministrazione e degli enti di regolamentazione del governo è pertanto fondamentale anch'essa.

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