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Finanza e Mercati In primo piano

Il vertice di Shanghai certifica che la guerra delle valute può provocare una guerra di bolle

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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2010 alle ore 15:54.

L'economia mondiale è a rischio. Più di quanto si creda. Il vertice a Shanghai organizzato dalla Banca del Popolo ha segnato una svolta importante, al di là degli esiti operativi, un po' deludenti, della riunione. Ha riconosciuto – lo ha fatto attraverso il direttore generale del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn – che le attuali politiche economiche sono destabilizzanti.

Un suggello importante. Si parla tanto di "guerra delle valute", ma in realtà si tratta di molto di più, di "guerra delle bolle": dove e come si manifesterà la prossima, gonfiata da politiche monetarie ultraespansive? Il gioco sembra quello di scaricarla sui partner. Nei giorni scorsi il governatore giapponese Masaaki Shirakawa è stato molto esplicito: «Non si può negare che queste condizioni monetarie molto espansive possono facilmente contribuire alla nascita di un'altra bolla», ha detto, ripetendo un allarme già risuonato altre volte. Shirakawa è stato però più specifico: «L'attuale ripresa dei paesi avanzati è sostanzialmente sostenuta da una forte crescita dei paesi emergenti. Così, se questa forte crescita si rivelasse di natura simile a una bolla, le economie avanzate e quelle emergenti insieme ne saranno colpite in modo notevole».

Il governatore giapponese non ha avuto paura neanche di affrontare il tema dei mercati: le borse dei paesi avanzati, ha aggiunto, sono ancora al di sotto dei livelli precedenti la crisi della Lehman, ma quelle dei paesi emergenti sono ai record storici, a causa della liquidità generata dalle grandi banche centrali. «In un certo senso – ha concluso – si può dire che l'espansione monetaria delle economie avanzate sta avendo effetti di stimolo nei paesi emergenti, attraverso i flussi di capitale». Studi empirici del Fondo monetario internazionale avevano del resto mostrato quanto forte possa essere, in alcuni paesi emergenti e soprattutto sulle loro borse, questo impulso.

È un mondo diverso da quello che in genere immaginiamo, ma non completamente nuovo, questo in cui le autorità monetarie prendono decisioni in base ai problemi "di casa", ma incidono poi – persino più che in patria – su altri paesi. Soprattutto in Cina che da questa situazione sta raccogliendo insieme vantaggi e svantaggi estremi: una crescita rapida, ma diseguale e dirompente, con prezzi sotto pressione, mercati in fibrillazione e il "felice problema" di gestire miliardi di dollari raccolti dalla banca centrale.

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A Shanghai, il partito comunista cinese – che coincide con lo stato e lo anima – ha spesso tentato di prendere a livello globale l'iniziativa che è mancata a Washington, dove ormai anche le élites sono catturate da un populismo esasperato e preelettorale. (E sul piano geopolitico non è un bene, per gli Stati Uniti e i paesi che adottano il modello occidentale). Le soluzioni che il vertice ha ora in qualche modo suggerito, non sono però, e non potevano essere, all'altezza dei problemi.

La promessa di una maggiore flessibilità (sostanzialmente di un apprezzamento) dello yuan, che la Banca del popolo prepara da tempo, sarà mantenuta, perché coincide con gli interessi di lungo periodo del paese, che vuole alimentare la domanda interna e frenare le spinte inflattive; ma occorrerà tempo: bisogna innanzitutto ridimensionare il potere della lobby degli esportatori. Occorrerà poi fare attenzione agli effetti complessivi del rialzo del cambio e al Partito comunista piace essere "confucianamente" prudente.

I controlli di capitale suggeriti da Strauss-Kahn, in un mondo reso più pragmatico dalla crisi, non fanno più scandalo; ma oggi, con mercati finanziari enormi e tumultuosi, possono rivelarsi ininfluenti nella migliore delle ipotesi – come è capitato alle più recenti esperienze – e persino destabilizzanti nella peggiore.

Le misure macroprudenziali di cui si è poi ufficialmente discusso al vertice sono state persino necessarie, ma possono nascondere il desiderio da parte dei governi – e sicuramente di quello cinese, che già è intervenuto in questo senso – di controllare in modo diretto, e soprattutto discrezionale, anche le quotazioni sui mercati finanziari e immobiliari.

Dalle carestie del Settecento al divieto di esportare il grano deciso da Putin nel 2010, gli effetti sono stati sempre peggiori del male. Occorre cooperazione, dicono tutti. Ed è vero: meglio decisioni condivise che un gioco al massacro. Sarebbe sbagliato, però, aspettarsi troppo.

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