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Questo articolo è stato pubblicato il 12 ottobre 2011 alle ore 09:58.

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Tiene il buon umore sui mercati perché al momento prevale la convinzione che l'Europa troverà il bandolo della matassa, riuscirà alla fine a districare i nodi della crisi greca che si intrecciano con quelli della ricapitalizzazione delle banche europee più esposte e compromesse.

Prevale un certo ottimismo, che però non coinvolge più di tanto l'Italia (come si è visto ieri dall'andamento delle aste sui BoT), perché l'assenza di un accordo tra i 17 dell'euro avrebbe per tutti effetti talmente devastanti che un simile scenario non viene contemplato, ha ammonito ieri Jean-Claude Trichet. Il presidente della Bce teme che il contagio di una crisi ormai sistemica dilaghi senza freni.

Quando però si affaccia sull'orlo del precipizio, l'Europa in genere ritrova voglia e coraggio di fare. Non a caso, dopo aver troppo a lungo temporeggiato, la stessa Angela Merkel sembra ormai convinta che sia ora di agire. Davvero. Non solo ricapitalizzando le banche ma anche riformando di nuovo i Trattati Ue per rilanciare l'integrazione europea e dotarla di quella dimensione politica che finora ha latitato, con tutti i costi aggiuntivi che esitazioni, confusione, miopie nazionali hanno imposto e impongono alla collettività. La Germania vuole una nuova Europa più moderna e competitiva, più omogenea ed efficiente, capace di protagonismo sulla scena globale. Un'Europa politica che faccia da contraltare naturale e obbligato a un euro stabile e credibile, patrimonio di tutti i suoi membri. Nella buona come nella cattiva sorte. Anche Berlino e gli altri 'falchi' l'hanno finalmente capito.

Il problema non è l'obiettivo ma il metodo per raggiungerlo. Proprio perché l'euro incatena tutti i Paesi alla stessa barca, con rischi, sacrifici e costi pro quota in teoria equamente ripartiti, l'egemonismo tedesco-francese diventa sempre più indigesto. Non c'è solo l'Italia, come ha fatto il ministro Franco Frattini, a scattare contro i direttorii a due. Anche i Paesi medi e piccoli, dal Belgio all'Olanda, dalla Finlandia a quelli dell'Est fino alla stessa Commissione Ue, sono in rivolta contro la politica dei fatti compiuti, regolarmente confezionata a Berlino con l'avallo più o meno entusiasta di Parigi. E non solo per questioni di lesa maestà nazionale o istituzionale in un'Unione che pure sul principio dell''unità nella diversità' ha fondato ordine e convivenza civile al proprio interno.

Quando l'emergenza da debiti sovrani si mescola pericolosamente con l'urgenza di ricapitalizzare le banche Ue sovraesposte, quando Bruxelles denuncia 16 istituti fragili e le agenzie di rating (per quel che vale il loro giudizio) abbassano i voti di 35, quando tra questi ci sono le francesi Société Générale e Crédit Agricole, quando l'Fmi ipotizza la necessità di una ricapitalizzazione per almeno 200 miliardi di euro e quando Nicolas Sarkozy, per non far perdere alla Francia la tripla A, insiste per ricapitalizzare attingendo non alle risorse nazionali ma a quelle dell'Efsf, cioè al fondo europeo il cui capitale di 440 miliardi è coperto per il 27% dalla Germania, 20% dalla Francia e 18% dall'Italia e via decrescendo per i Paesi più piccoli, appare evidente che nessuno può pensare, in barba alla regola dell'unanimità, di decidere sulle spalle degli altri, soprattutto in questi tempi di draconiano rigore di bilancio per tutti. Il fatto stesso che qualcuno ci provi, tra l'altro apparentemente senza il consenso tedesco, crea quel malessere diffuso, non solo italiano, che tormenta un'Europa sempre più cinica e bara, che a ragione pretende grandi sacrifici ma taglia il bilancio comune e falcidia gli aiuti che distribuisce e per questo è sempre meno amata dai suoi cittadini.

Nel mondo globale però l'Europa non ha alternative: ci piaccia o no, è la dimensione minima per esistere. La Germania si sta muovendo di conseguenza in un club dove tutti devono fare la loro parte. Italia per prima. Però basta con i direttorii, per favore. Non fanno bene alla coesione dell'euro, quindi nemmeno a una pace durevole sui mercati.

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