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Questo articolo è stato pubblicato il 07 agosto 2012 alle ore 08:45.
L'ultima modifica è del 07 agosto 2012 alle ore 09:16.

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Il viaggio terminò alla fine del 1992. L'Italia navigava nella bassa marea della Prima Repubblica ma l'economia reale marciava in beata solitudine fiduciosa nelle sorti progressive della creatività e del saper fare connaturato con l'italianità. Gli inviati e i giornalisti scandagliarono la trama e l'ordito dei distretti industriali, forse l'unico, vero grande tesoro messo insieme dalla generazione di imprenditori italiani sopravvissuta alla catastrofe della seconda guerra mondiale.

Da quell'inchiesta nacque un libro dal titolo evocativo: «Gioielli, bambole e coltelli», viaggio de Il Sole 24 Ore nei distretti produttivi italiani. Vent'anni dopo, il direttore ci ha chiesto di tornare nei luoghi che originarono i distretti, misurando questa volta l'efficienza, l'innovazione, il tasso di export e le trasformazioni (o le crisi) intervenute nel corso di questi anni non solo con approfonditi reportage, ma anche attraverso l'elaborazione di un rating sintetizzato dai tre punti di forza e tre di debolezza del distretto. Una rapida successione di cifre e giudizi imparziali che come un'istantanea riprodurranno lo stato di salute (o di malessere) dei distretti.

Da Agordo, nel Bellunese, a Casarano, nel basso Salento; da Calargianus, in Gallura, a Gardone Val Trompia, in provincia di Brescia, i giornalisti del Sole svelarono ai loro lettori un'Italia orgogliosa e fattiva che attraverso il network delle imprese racchiuse nei distretti industriali competeva sui mercati di tutto il pianeta. Sessantacinque furono le tappe di quell'interminabile viaggio alla ricerca di toponimi e prodotti in parte misconosciuti agli stessi reporter. Alzi la mano chi sappia in quale provincia sorge Frosolone, la patria di forbici e coltelli made in Italy, oppure Palosco, a quel tempo epicentro mondiale nella produzione dei compassi. E così da Biella a Matera, da Parma a Castelfidardo i giornalisti-cartografi ricomposero la mappa geo-economica dell'azienda Italia, una mappa fino a quel momento priva di punti cardinali, latitudine e longitudine, individuati una volta per tutte da quell'inchiesta, una sorta di pietra angolare della manifattura italiana.

Paese che vai distretto che trovi, così si srotolarono storie imprenditoriali, di innovazione e creatività, filiere lunghe e corte, spin off spontanei incoraggiati dall'impresario di prima generazione che aiuta il suo operaio a mettersi in proprio per produrre una molla che poi entrerà a far parte del mosaico ricchissimo e puntiforme dell'industria italiana.

Il direttore Gianni Locatelli, che volle quel primo viaggio, scriveva nella prefazione al libro del '92: «Nel confronto internazionale, l'Italia difetta certamente di grandi imprese. Ma se i 65 distretti attuali (e tutti quelli che verranno) cominciassero a funzionare come altrettante "grandi imprese" il confronto non sarebbe più così impari e, soprattutto, il sistema Italia troverebbe ben altre possibilità di competizione internazionale». Non è andata come ci si sarebbe aspettato.

L'Italia, nella competizione internazionale, ha perso più di qualche posizione. I distretti però sono ancora lì, vivi e vegeti, con le inevitabili e quasi auspicabili metamorfosi.

A loro se ne sono aggiunti altri, almeno un terzo in più, neonate aggregazioni di filiere produttive che gli inviati racconteranno ai loro lettori come fecero i loro omologhi di un tempo. In questi vent'anni si sono verificati cambiamenti che hanno modificato in profondità il paesaggio industriale italiano. La globalizzazione ha rimodulato tutto. Se già allora i sistemi distrettuali erano export-oriented, come buona parte di una economia nazionale costretta storicamente dall'afasia del mercato interno a proiettarsi all'estero, adesso sono stati rimodellati dall'apertura dei mercati internazionali. Che sono luoghi di dura competizione. Posti dove si guadagna e si cresce, ma anche dove si perde e si muore. E, così, per molte aziende italiane la classica integrazione interna ai sistemi economici locali ha fatto il paio con l'ingresso nelle reti lunghe della manifattura globale. Negli ultimi vent'anni, in questo nuovo contesto, sono emersi nuovi protagonisti.

Come le medie imprese internazionalizzate teorizzate nel canone del Quarto Capitalismo dal vecchio Istituto di storia economica della Bocconi e studiate dall'ufficio studi di Mediobanca. Medie imprese che sono spesso integrate nelle economie di territorio. Economie di territorio che, peraltro, non possono non avere subito effetti dall'altro fenomeno che ha mutato in maniera radicale la struttura produttiva italiana: la crisi della grande impresa, con il progressivo rimpicciolimento dei grandi gruppi privati e post-pubblici. Un fenomeno che ha riconfigurato gli assetti e gli equilibri del capitalismo produttivo italiano. A questo punto, i vecchi distretti assumono per il futuro del Paese una centralità ancora maggiore.

I cartografi aggiornano periodicamente le loro mappe. Così torneremo a visitare i distretti raccontati nel 1991 per coglierne le trasformazioni, i successi o le crisi, i punti deboli e quelli forti. E poi allargheremo la nostra esplorazioni agli altri 35 network d'impresa emersi mentre l'Italia entrava e usciva da un'altra Repubblica, la seconda. Alla fine del viaggio tracceremo un resoconto e faremo le inevitabili comparazioni con il passato. Misureremo la capacità innovativa, il tasso di competitività, il grado di robotizzazione, la quota di export, e soprattutto racconteremo le storie dei figli che nel frattempo sono succeduti ai padri. Un'altra generazione alla prova. Non solo di imprenditori, ma anche di amministratori pubblici. Guai a dimenticare che i distretti esprimono sensibilità e vocazioni di interi territori. L'unione fa la forza, e i distretti sono per loro stessa natura la risultante dell'alleanza dei ceti produttivi, uno slancio collettivo per un modello industriale che il mondo ancora oggi ci invidia: l'eccellenza della manifattura italiana.

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