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Questo articolo è stato pubblicato il 10 agosto 2012 alle ore 06:44.

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PRATO - Per capire la trasformazione economica di Prato non servono numeri e tabelle: basta andare nel Macrolotto 1, l'area industriale a sud della città che accoglie 600mila metri quadrati di capannoni, a lungo vetrina e vanto dell'imprenditoria tessile locale.

Qui, dove fino a dieci anni fa c'erano le più belle fabbriche di tessuti e filati del distretto, oggi regnano decine e decine di aziende cinesi di "pronto moda" che sfornano abiti e magliette a prezzi stracciati, possibili solo perché dietro quelle produzioni - che possono fregiarsi dell'etichetta made in Italy - c'è un sistema organizzato di illegalità (lavorativa e fiscale) da far invidia ad Al Capone.

Il Macrolotto 1 è lo specchio a due facce di un cambiamento epocale in corso in uno dei distretti più antichi, più importanti e più studiati d'Italia che, ancora nel 2001, dava lavoro a 38mila persone e fatturava quasi cinque miliardi di euro.

Ma da un decennio abbondante l'industria tessile, che a Prato è un po' come l'aria da respirare, è avvitata in una crisi subdola e perversa. «Mai viste tre legnate così in pochi anni», sospira Vincenzo Cangioli, 48 anni, erede del gruppo tessile più antico della città, nato nel 1859, uno dei pochi che mantiene all'interno tutte le fasi di lavorazione e che, anche in virtù di questo, continua a marciare. Le legnate evocate da Cangioli sono quelle che, ancora oggi, tolgono il sonno agli imprenditori pratesi: prima l'ingresso della Cina nell'organizzazione mondiale del commercio che ha aperto la porta alla caduta, a fine 2004, delle barriere all'import del tessile-abbigliamento; poi, nel 2009, la grande crisi internazionale piombata in un distretto non certo in grande salute. Infine, nel 2012, un'altra crisi mondiale a distanza così ravvicinata.

L'avvento sul mercato di nuovi competitor in grado di produrre a costi notevolmente inferiori, primo fra tutti la Cina, ha mandato in crisi centinaia di aziende tessili, artigiane e industriali, creando falle in un sistema produttivo leader, tradizionalmente votato all'export (con quote vicine al 60%). «Le dimensioni non sono state discriminanti per la sopravvivenza delle imprese, e questo ha reso ancor più difficile comprendere il cambiamento», spiega Andrea Cavicchi, 46 anni, presidente dell'azienda di tessuti innovativi Furpile Idea e fresco leader degli industriali pratesi, deciso a cancellare il refrain di declino che negli ultimi anni ha dominato la scena. «Ma quando il cambiamento è stato evidente - ammette Cavicchi - non c'è stata l'umiltà di mettersi in discussione».

Per lungo tempo a Prato si è continuato a pensare che il lavoro nel tessile, collante e identità della città, potesse ancora assicurare il (grande) benessere del passato. «Il distretto non ha colto il momento in cui doveva cambiare modo di produrre e di proporsi; e ha smesso di investire, adagiandosi sulla rendita assicurata dagli affitti pagati dai cinesi», riflette Alessandro Fabbrizzi, 46 anni, segretario provinciale della Cgil.
Così in dieci anni Prato ha dimezzato le aziende tessili (erano 5.800, oggi sono meno di 3.000) e gli occupati, oggi sotto 18mila, perdendo 1,6 miliardi di fatturato tessile.

«Si sono ridimensionate le lavorazioni di fascia medio-bassa, soprattutto quelle laniere cardate che erano centrali per il distretto», spiega Enrico Mongatti dell'ufficio studi di Confindustria Prato, ricordando il dato choc delle filature cardate: scese da 500 a 100 nel giro di un decennio. Sono stati anni di grandi ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali, anni di timori (culminati nella manifestazione di piazza del febbraio 2009 al grido "Prato non deve chiudere") e di richieste d'aiuto, ma anche di riposizionamento sui mercati per inseguire i nuovi clienti. E se è pur vero che la Germania, storico partner del distretto, è rimasta lo sbocco più importante (pesava il 34% nel 1991, pesa il 15% oggi), è anche vero che subito dietro ora si piazza l'accoppiata Hong Kong-Cina (con l'11%), che vent'anni fa non esisteva. Prato dunque ha cambiato prodotti (spostandosi su una fascia più alta), mercati (ma esporta ancora il 55%) e clienti.

E, tutta presa a tamponare questo sconquasso, ha lasciato spazio agli intraprendenti emigrati cinesi in arrivo dalle province orientali del Zhejiang e Fujian, interessati a far soldi più che a rispettare le leggi. Mentre il tessile dimagriva, l'abbigliamento fatto dai cinesi esplodeva, al punto che in pochi anni a Prato è nato un vero distretto industriale etnico degli abiti low cost, unico in Europa, formato da 4mila ditte cinesi che impiegano almeno 30mila connazionali (compresi i clandestini), capaci di cucire quasi un milione di capi al giorno. Il sistema copre tutte le fasi di lavorazione eccetto la produzione del tessuto, comprato in Cina a basso prezzo. Per questo i due distretti, del tessile e dell'abbigliamento, restano paralleli e con scarsi rapporti.

A guardare superficialmente i numeri, in fondo, si potrebbe dire che la perdita del fatturato tessile nell'ultimo decennio (1,6 miliardi) è stata "compensata" dal boom di ricavi dell'abbigliamento cinese. Il problema è che più della metà di quei ricavi sfugge a tasse e contributi e, appena posibile, vola in Cina. Inoltre, nelle aziende cinesi dilaga lo sfruttamento feroce dei lavoratori («Il sindacato ha una parte di responsabilità», ammette ora Fabbrizzi) e questo sistema illegale ha attirato come miele la criminalità organizzata, come documenta una maxi inchiesta della procura antimafia che ipotizza il riciclaggio di quasi cinque miliardi di euro a opera di un'organizzazione mafiosa italo-cinese.

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