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Questo articolo è stato pubblicato il 10 agosto 2012 alle ore 06:44.

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Il saldo economico tra i due distretti non è, dunque, pari a zero, e oggi il dilemma di Prato è doppio: come far ripartire il distretto tessile e come integrare il distretto cinese nel sistema produttivo. «Il futuro di un distretto non è necessariamente agganciato a quello dell'altro - sottolinea Cavicchi - ma riuscire a unire questi due corpi che oggi non si parlano aprirebbe una grande opportunità: potremmo offrire ai clienti interessati al tessuto direttamente i capi d'abbigliamento finiti, realizzati da una filiera italiana strutturata. Ma per far questo occorre avvicinare le due culture, e risolvere il problema dell'illegalità cinese». La prospettiva piace al sindacato: «Serve assolutamente una svolta - dice Fabbrizzi - anche se una fusione a freddo tra i due distretti non è possibile».

Sul "come" fare, però, le strade di istituzioni e forze economico-sociali si dividono. Il Comune di Prato - centrodestra dal 2009, per la prima volta nella storia - sta spingendo sui controlli e sulle sanzioni alle aziende cinesi, mentre Provincia di Prato e Regione Toscana (a guida centrosinistra) sono al lavoro su un progetto di emersione dall'illegalità orientale, che comprende anche la nascita di un centro di ricerca italo-cinese.

La novità però è che, dopo essere rimasta disorientata per anni, Prato - seppur divisa e scomposta - sta provando a rimettere insieme i pezzi del suo sviluppo. Partendo dalla consapevolezza che il tessile è ancora oggi il pilastro su cui si regge l'economia del territorio, capace di assicurare il 55% dell'export provinciale. Ora è ben chiaro a tutti che sarebbe suicida perdere pezzi pregiati della filiera produttiva e le categorie economiche, coordinate dalla Camera di commercio, hanno avviato una ricognizione delle lavorazioni "sopravvissute" alla crisi del distretto, propedeutica a politiche di sviluppo mirate per il settore.

Allo stesso tempo Confindustria Prato ha rilanciato il tema dell'etica di filiera, con la delega data da Cavicchi a un imprenditore di peso e d'esperienza come Leandro Gualtieri della Filpucci filati: «La filiera produttiva è la vera ricchezza di un distretto industriale e va salvaguardata a ogni costo - dice Gualtieri -. Per questo noi committenti dobbiamo riconoscere ai terzisti tariffe adeguate e prenderci dei rischi, come quello di produrre articoli evergreen nei periodi di scarso lavoro, per non farli morire».

L'attenzione alla filiera, peraltro, potrebbe essere il mezzo per stimolare forme di cooperazione tra aziende. «Il distretto deve fare aggregazioni, sinergie produttive e soprattutto formazione - dice Giovanni Santi, uno dei pochi imprenditori che con la sua Beste ha affiancato alla produzione di tessuti quella di capi d'abbigliamento, e che sta lavorando alla nascita di una scuola di tecnici per gli abiti - ma non sta facendo niente di tutto questo. Vive alla giornata, ad aspettare che riparta il mercato e passi la crisi. E ogni azienda rimane nel proprio feudo». «Il problema più grosso di Prato, oggi, non è la competitività del distretto - sostiene Vincenzo Cangioli - ma quella dell'Italia. I nostri costi di produzione sono troppo alti, a partire dall'energia». Il nuovo pericolo è già in agguato: i competitor all'orizzonte non sono più i cinesi ma i turchi, distanti appena tre giorni di camion, e non quattro settimane di nave.

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