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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2012 alle ore 16:25.

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CENTO (FE). Dal nostro inviato
«Non vorrei fare un discorso da vecchio. Ma, una volta, quando andavo in giro per il mondo, al nome Cento tutti mi rispondevano "Lamborghini". Adesso, non c'è uno che non mi citi il carnevale, che sarà anche bello e divertente. Però….».
Ugo Poppi, di professione imprenditore meccanico, ha 73 anni. Ha la malinconia di chi ha visto il secolo breve correre veloce come una Ferrari della vicina Maranello. Ricorda il mitico Ferruccio Lamborghini impegnato nelle briscole al Caffè Grande («ti diceva: hai preso quella commessa? Bravo. E tu, per giorni, ti sentivi un leone») e a passeggio nei viali alberati con le "fidanzate" di un giorno, belle qualche volta e sempre appariscenti, e pazienza se non erano proprio ragazze di buona famiglia. Il suo è un doppio sentimento: un poco di nostalgia e tanto spaesamento, per la mutazione che negli ultimi vent'anni ha sperimentato uno dei luoghi simbolo dello sviluppo italiano, la febbre delle piccole imprese e il respiro lungo delle grandi fabbriche fordiste, le lucciole dei campi tutt'intorno, un senso della comunità e un capitale sociale che nonostante tutto perdurano conferendo al nostro capitalismo e ai suoi territori una stabilità e una elasticità sorprendenti.

Sì, perché a Cento, sotto gli eleganti portici da Italia del nord e di mezzo raccontata con distaccato stupore harvardiano da Robert Putnam, si è presentata sua signora la globalizzazione. La quale ha provocato uno stretto collegamento fra le imprese più strutturate e i mercati internazionali e una selezione secca della subfornitura locale meno efficiente e dei piccoli produttori che non hanno saputo connettersi direttamente al mercato-mondo. Con il risultato di una diminuzione del numero delle imprese e una flessione dell'occupazione. Secondo l'Istat, che per Il Sole 24Ore ha elaborato i dati dei censimenti e dell'archivio statistico delle imprese attive, a Cento, Bondeno, Mirabello, Poggio Renatico e Sant'Agostino nel 1991 c'erano 428 imprese meccaniche che davano lavoro a 5.114 persone. Dieci anni dopo, nel 2001, sono diventate 394 (5.027 gli addetti). Nel 2009, l'ultimo anno prima dell'attecchimento nel manifatturiero del virus della crisi finanziaria che ha ulteriormente indebolito i nostri tessuti industriali, sono scese a 341, con 4.398 occupati. Dunque nei due decenni che, con la globalizzazione e il passaggio lira-euro hanno cambiato tutto, in questo piccolo ma fondamentale ingranaggio dell'organismo meccanico italiano hanno chiuso 87 aziende e si sono persi 716 posti di lavoro. Una rimodulazione degli assetti produttivi che ha comportato l'uscita dal mercato delle imprese inefficienti e un allentamento dell'integrazione strategica del sistema produttivo locale. «Non è soltanto una questione di numeri. La globalizzazione ha soprattutto mutato il ritmo del Centese», riflette Vilmo Ferioli, classe 1934, dal 1960 al 2008 alla VM Motori, la grande azienda che ha costituito per oltre cinquant'anni l'organo più massiccio di un corpo meccanico che, nell'arco di pochi chilometri, poteva modulare qualunque componente servisse ad azionare una automobile, un trattore, una moto, un aereo. Ferioli è un tecnico diplomato all'Istituto Barozzi di Modena, una delle mille scuole professionali che hanno reso possibile l'industrializzazione del Paese, e nessuno si stupisca se tutti lo chiamano ingegnere, forse gli mancano le conoscenze per dare al politecnico gli esami di analisi e di calcolo, ma tutto il resto c'è. Dice Ferioli: «I mercati aperti, il boom della Cina, la corsa del Sud America, tutte quelle cose lì, hanno cambiato il nostro passo e la nostra direzione. Una volta, se le cose andavano bene per le grandi aziende del Centese, andavano bene per tutti. Anche per i piccoli artigiani. La sorte era comune.

Negli ultimi vent'anni, invece, i destini si sono separati: può andare male ai più piccoli e bene ai più grandi. E il contrario». A ciascuno il suo. Ferioli, anche grazie all'attività da banchiere locale, conosce bene le opportunità e gli stordimenti provocati da vent'anni di integrazione dei mercati internazionali. Dal 2004 al 2009 è stato presidente della Cassa di Risparmio di Cento, una di quelle banche che chi parla solo inglese fa fatica a capire, in cui hanno sempre dato i soldi in base al senso di fiducia che promanava la figura di chi li chiedeva e dove, nonostante la prevalenza della cultura del rating, anche le semplici strette di mano non si sono allentate. Una delle infrastrutture finanziarie che accomuna lo sviluppo locale italiano a quello francese, spagnolo e tedesco. E che ha accompagnato il sistema industriale nel processo di riposizionamento, anche internazionale.

«C'è stata una selezione, ma non un ecatombe. Il nostro tessuto ha retto. Molti semplici contoterzisti sono caduti. Chi lavora solo per l'Italia soffre. È questa la nuova regola», sottolinea Gianni Fava, della omonima famiglia proprietaria della Fava Spa (impianti per pastifici, 265 addetti e un centinaio di milioni di euro di fatturato) e della Baltur (bruciatori e caldaie, 50 milioni di ricavi e 180 occupati). «La globalizzazione ha cambiato la nostra comunità anche più di quanto non dicano le cifre - riflette l'imprenditore centese - l'impatto sulle strategie delle imprese è rilevante. Venticinque anni fa la Baltur esportava il 7% del fatturato, ora è al 60 per cento. La Fava il 30%, adesso è all'80 per cento». L'altra faccia della connessione ai mercati aperti è l'allentamento dell'integrazione dell'agglomerazione protodistrettuale centese. Una concentrazione industriale, appunto, baricentrata sulla VM Motori. Oggi il 5% di un ipotetico motore standard della VM è fabbricato con componenti locali, acquistati da 15 fornitori. Vent'anni fa era il doppio: il 10%, ottenuto con 25 aziende del Centese. E, andando indietro nel tempo, la quota tenderebbe a crescere. «La coppa dell'olio - spiega Giorgio Garimberti, amministratore delegato di VM - una volta la costruiva uno specialista locale della pressofusione. Adesso la comperiamo in Cina». Questo vale per tutto il Nord Italia. Le reti della fornitura si sono allungate all'inverosimile. Il basamento del motore è acquistato in Brasile, anziché a Vicenza. L'albero a canna non più in Alto Canavese, ma per metà in Corea e per metà in Germania. A sua volta VM, che adesso è al 50% di Fiat e al 50% di General Motors, è più inchiavardata ai mercati stranieri, dato che il grosso della sua produzione finisce in Chrysler. E lo è con profitto: nel 2011 il fatturato è stato di 270 milioni di euro, quest'anno sarà di 330 milioni, l'anno prossimo la prospettiva è che superi i 400 milioni toccando, nel 2014, i 600 milioni di euro. Con una buona ricaduta occupazionale per l'economia locale: agli attuali 1.100 addetti (un centinaio di ingegneri), nei primi sei mesi del 2013 si aggiungeranno 300 nuovi assunti.

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