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Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2012 alle ore 08:02.

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Le cave sono sempre le stesse. Lì, immobili, a spaccare la linea verde delle montagne trentine, a segnare il destino di intere famiglie, generazioni, paesi. Tra Albiano, Fornace, Pinè, Cembra, Lases, Visignago, un fazzoletto di terra a nord est di Trento, sopra Pergine e il lago di Caldonazzo.

Lì, da più di cent'anni, a fare la sorte economica di una provincia di 500mila abitanti, a determinare la fortuna di operai e imprenditori. A quei "buchi" ci sono affezionati i trentini. Quei buchi sono "loro", rappresentano la forza e la capacità dell'uomo di forgiare una materia e di dominarla. Sono una sicurezza, nonostante la crisi, e parlano di stabilità: visiva, pesante, solida.
Oggi come vent'anni fa, il porfido non ha mai tradito e continua ad essere per il territorio trentino fonte di ricchezza economica. Ma molto è cambiato negli ultimi decenni: il modo di estrarre la pietra, la produzione, il mercato, la concorrenza. Tutti i numeri sono al ribasso: sono calati i fatturati, il numero di cave, le tonnellate estratte. Dal 2001 tutto è diverso, il mercato globalizzato, la valuta unica e l'apertura alla concorrenza hanno "rimpicciolito" il valore della nicchia trentina.

E, come spesso capita in questi casi, la necessità di mantenere alto quel valore e il timore di perdere ciò che si è guadagnato ha fatto sì che questo popolo di montagna mettesse in atto una forzata trasformazione di mentalità, fino a un approccio moderno nei confronti di un mercato in movimento.
La chiave di volta di questo cambiamento è stata la crisi degli ultimi anni, che ha messo di fronte il comparto a tre emergenze: il calo della domanda rispetto all'offerta; la concorrenza di prodotti a prezzo inferiore – ma di minore qualità – da Cina, India, Vietnam; l'estremo individualismo degli imprenditori che negli anni Novanta e Duemila ha portato alla polverizzazione delle imprese, più piccole (i fatturati non superano i 5-10 milioni) e con meno addetti. «Di fronte a tutto questo, siamo migliorati nella tecnologia – spiega Mariano Gianotti, presidente del Distretto – e nella diversificazione di prodotto: al posto delle strade facciamo piani cucina, aumentiamo l'offerta a scapito del tonnellaggio, produciamo e fatturiamo meno, ma aumentiamo gli utili».

Insomma, si è fatto fronte con una strategia che ha modificato il processo e l'offerta. Ma i numeri parlano chiaro, dalla metà del decennio scorso l'attività ha subito un netto rallentamento: la quantità estratta è passata da 1,5 milioni di tonnellate del 2000 a 1,05 milioni nel 2010, il relativo valore è sceso da 80,1 a 52 milioni di euro, le cave erano 106 nel 1989 rispetto alle 91 del 2010, gli addetti sono passati da 1.253 del 2000 a 933 del 2010, i fatturati 2011 segnano un -5,9%, tra il 2000 e il 2008 l'export ha segnato valori medi annui attorno a 110 milioni di euro, mentre nel 2009 ha subito una flessione tendenziale del 17% e un ulteriore calo del 10% nell'anno successivo, posizionandosi sotto gli 80 milioni di euro.

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