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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2012 alle ore 09:14.

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«Negli ultimi trent'anni - racconta Angelo Sari, a capo della sezione conciatori dell'Assindustria di Avellino r titolare di un'azienda che conta 38 dipendenti e fattura poco meno di 9 milioni - ci siamo riciclati tre volte: agli inizi degli anni Ottanta la quasi totalità della nostra produzione era orientata alle fodere da calzatura. Poi tra l'80 e il '90 è cresciuto a dismisura l'abbigliamento. A fine anni Novanta, a cavallo della prima crisi finanziaria asiatica, ci siamo convertiti a pelletteria e calzature e le forniture per l'abbigliamento si sono ridotte a una nicchia di altissima qualità. Ma chissà tra vent'anni ancora cosa accadrà: oggi si sta combattendo la terza guerra mondiale con la Germania, che ci incalza perché siamo l'unica nazione europea che per cultura e tradizione industriale può ostacolare i suoi progetti di controllo di gran parte dell'economia continentale».

Questa evoluzione - come ovvio, ha avuto in ogni caso un impatto sul reticolo di aziende del polo. Nell'inchiesta pubblicata vent'anni fa dal Sole 24 Ore, «si fotografavano 130-150 aziende capaci di un ciclo completo della lavorazione - spiega Rosanna D'Archi, che da sempre segue il comparto, un'istituzione di Assindustria Avellino -. Le altre, circa il doppio, si occupavano di singole fasi di lavorazione».

In totale, all'epoca, erano circa 3.500 gli occupati. Il fatturato oscillava tra gli 800 e i mille miliardi di vecchie lire. Nel 2012, considerando anche gli effetti dello tsunami recessivo ancora in piena espansione, Assindustria conta 89 aziende che effettuano il ciclo completo della lavorazione, che salgono a 129 se si contemplano anche quelle che si occupano dei prodotti chimici e dei servizi a sostegno del polo. Gli addetti sono scesi a 1.800-2mila unità e il fatturato non supera i 350-400 milioni annui, di cui poco più di un centinaio derivanti dall'export (dati Osservatorio nazionale dei distretti italiani). Anche perché sono scomparsi alcuni marchi storici del distretto (come la Albatros, la Conceria Iuliani e la Map) e altri sono in difficoltà. E le dimensioni delle singone aziende si sono targettizzate verso il basso: in media 10-20 dipendenti con punte, per le sigle più strutturate, di 45 addetti.

Restano invece immutati i mercati di approvvigionamento delle materie prime (Medio Oriente, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Nigeria e Sudafrica) - che però adesso impongono l'acquisto di semilavorati spazzando via tutta una parte della filiera indigena - e le piazze di sbocco: i pellami per calzature e pelletteria sono destinati quasi esclusivamente al mercato domestico, mentre quelli per l'abbigliamento sono destinati prevalentemente a varcare i confini per raggiungere Germania, Stati Uniti, Cina, Corea del Sud e Turchia.

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