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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2012 alle ore 09:14.

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«Questa è un'economia consolidata - sottolinea, con orgoglio, Sari - e nessuna economia emergente potrà spazzarci. Anche perché l'organizzazione e la qualità che siamo in grado di garantire qui a Solofra è assolutamente inimmaginabile in altre parti del mondo».
L'allusione è soprattutto all'agguerrita concorrenza cinese, che comunque sta sortendo l'effetto di far lievitare i costi di approvvigionamento: «I cinesi acquistano grandi quantità di materia prima e la sottraggono al mercato, facendo così lievitare i prezzi», spiega la D'Archi.

«Ma fortunatamente le transazioni avvengono su area dollaro - aggiunge Sari - e per noi questo mitiga l'impatto speculativo di altri Paesi. Piuttosto siamo in affanno per le diseconomie che patiamo per un sistema-Italia che è alla frutta: altro che articolo 18, 27 o 45. Paghiamo costi sociali e burocratici altissimi».

Il riferimento non è solo all'incredibile vicenda della depurazione delle acque che ha contraddistinto le cronache locali negli ultimi trent'anni e ai costi connessi, ma anche e soprattutto alla marea di certificazioni e autorizzazioni che occorrono per conciare pelli a differenza di quanto avviene in altre piazze internazionali. «Non voglio ricapitolare la via crucis del nostro depuratore, una vicenda ricca di passaggi giudiziari e di ingerenze della politica. Se ci avessero fatto gestire da soli la partita… - commenta Sari -. Ora siccome per legge ci hanno detto che il nostro impianto di depurazione è da considerarsi un tutt'uno con quello non lontano dell'area di Mercato San Severino, ultima tappa prima dell'innesto nel fiume Sarno, ci hanno imposto di pagare anche gli oneri di depurazione per quella fetta del territorio. Vi immaginate i costi? Il doppio di quelli a carico di altri poli concorrenti in Italia. E vogliamo discutere delle dogane? La direzione Campania-Calabria-Molise ci ha detto che non possiamo importare più sfruttando le facilitazioni Iva, perché nel territorio di riferimento c'è troppa evasione. Dunque, penalizzano noi che siamo in regola perché c'è qualcun altro che evade e perché loro non riescono a effettuare i controlli. E potrei continuare - dice ancora Sari, che è una sorta di fiume in piena -: sapete quanto tempo mi occorrerebbe per mettere su una nuova linea produttiva se volessi far fronte a picchi di ordinativi? Almeno due anni. Meglio, dunque, affidarsi a contoterzisti qualificati del territorio. Come farei a rispondere alla Armani che il 25 luglio vuole andare in produzione e che si è riservata qualche giorno per scegliere i pellami?».

Il segreto comunque sta tutto nello spirito di reazione di questa popolazione di impenditori con il nobile Dna dell'artigiano. «La crisi impone scelte - spiega Pinuccio De Vita della Deviconcia, azienda-gioiello fondata negli anni Settanta e attualmente capace di una produzione di 500mila quintali di pellami trattati -. È uno sprone ad attuare sistemi di gestione moderni: siamo continuamente impegnati nella ricerca, nel rinnovamento di mercati e di prodotto. Noi, per esempio, siamo passati in un decennio da 38 a zero dipedenti per risalire adesso, dopo quattro anni di crisi acuta, a 42 unità e una decina di milioni di fatturato da pelletteria e calzature. La verità è che ci siamo reinventati continuamente, formando noi stessi e le maestranze, producendo a basso impatto ambientale, investendo in innovazione e in ricerca: le grandi firme chiedono modifiche continue. Come noi, ne conterei altri quindici-venti. Siamo quelli che trainano il distretto per davvero».

Un distretto che adesso sta già guardando al suo futuro. Nei prossimi giorni, dopo la firma pubblica, dovrebbe essere costituito il contratto di rete dei conciatori. «Servirà anche a difenderci meglio, oltre che a produrre con sinergie importanti - puntualizza Sari -. Speriamo che anche le istituzioni ci aiutino. Incentivi? Basterebbe che stessero fermi. La politica ci ha già danneggiato tanto e gli enti di promozione non sempre sono efficaci».

«Magari un po' di fondi per la ricerca e per una migliore politica fieristica sarebbero auspicabili - conclude De Vita -. È finito il tempo delle chiacchiere, noi continuiamo a fare da soli e a fare bene. Abbiamo una voglia imprenditoriale radicata, speriamo che non ce la facciano passare».

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