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Questo articolo è stato pubblicato il 31 agosto 2012 alle ore 08:23.

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POSSAGNO - Dal nostro inviato
L'intuizione dei padri si è rivelata esatta. La loro lungimiranza ha messo al sicuro il distretto e le sue produzioni, aprendo la strada al cambiamento e alla diversificazione indispensabili per reggere la crisi. Sono i figli degli imprenditori, oggi ai vertici dell'azienda di famiglia, a rendere omaggio a coloro che – in anni nei quali non si parlava nè di reti, nè di aggregazioni – hanno deciso di fare il grande salto.

La data chiave è il 3 luglio 1997: dalla fusione di 5 aziende (con 6 stabilimenti produttivi) sulle 7 allora operative, nasce Industrie Cotto Possagno; delle due che non aderirono al patto, una ha chiuso e la seconda ha cambiato proprietà. Con l'accordo, operativo da gennaio 1998, decollava una realtà da 188 dipendenti diretti, indotto escluso, per un fatturato, allora, di 40 miliardi di lire, un prodotto sostanzialmente unico, il celebre coppo, indirizzato a un mercato per l'85% domestico.

Oggi, arrivando a Possagno, si entra direttamente nel vivo della produzione dei coppi, in un incrocio di stabilimenti, depositi di materiale e parcheggi incastrati l'uno nell'altro, senza soluzione di continuità, come allora: sulla destra il tempio del Canova, sulla sinistra il cosiddetto pareton, la montagna scavata per ricavarne materia prima e che il veto da parte del vicino comune di Castelcucco ha impedito di ripristinare, lavorando su terreno e pendenze e piantando nuovi alberi, come è stato fatto in altre cave. Nessuno si aspetta un aumento di volumi, nessuno nega l'eccezionalità di una crisi «mai vista prima», ma il distretto c'è. I primi contatti per dare forma al gioco di squadra erano iniziati nel 1982, subito dopo la prima delle molte congiunture sfavorevoli che si sono succedute:

«E pensare che fin dagli anni Quaranta – racconta Gianpaolo Vardanega, direttore commerciale della Spa – ogni famiglia faceva per sé, con un unico forno, facendo a turno per cuocere i coppi, facendosi anche qualche dispetto come lasciare il fuoco basso a chi sarebbe venuto dopo». Non c'era ancora una specializzazione, qui si facevano anche i mattoni, né una forma societaria a identificare queste realtà, che già negli anni Sessanta – altra crisi – avevano messo in comune alcuni uffici, per definire politiche commerciali comuni. In quegli anni di prima industrializzazione, si erano perfino avventurate «in terra straniera» – Villaverla, nel Vicentino, e il Friuli-Venezia Giulia – per tentare la strada delle acquisizioni di fornaci già esistenti. Sono stati gli shock petroliferi di quegli anni a spingere verso una automazione crescente della produzione: un passaggio, dal vecchio forno al tunnel, non facile, perché il coppo con la sua forma particolare era difficile da movimentare senza rotture, e servivano macchinari studiati appositamente.

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