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Questo articolo è stato pubblicato il 02 settembre 2012 alle ore 08:13.

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SANTA CROCE SULL'ARNO (PI). Dal nostro inviato
Pochi distretti hanno saputo leggere il cambiamento del mercato, dettato dalla globalizzazione, come ha fatto il comprensorio della pelle e del cuoio di Santa Croce sull'Arno e Ponte a Egola.

Un dato basta a raccontare questa trasformazione: in vent'anni l'export è passato dal 30 a oltre il 70% dei ricavi, saliti nel 2011 a quota 1,5 miliardi (+8%). Il 25% del fatturato complessivo del polo conciario viene realizzato in Cina e una quota analoga sul mercato italiano. Un feeling particolare quello di Pechino con le 300 concerie toscane, a cui si aggiungono altre 300 aziende dell'indotto (con 6mila addetti complessivi), testimoniato dai frequenti viaggi dei leader politici del Paese del Dragone nel Valdarno pisano: il premier Wen Jiabao visitò il distretto nel 2004, il presidente Hu Jintao nel 2009.

All'origine di questo legame c'è l'interesse degli amministratori cinesi verso la tecnologia ambientale italiana, sviluppata attraverso investimenti consistenti (per quanto riguarda il polo pisano 1,7 miliardi dagli anni Ottanta ad oggi) e un ruolo importante l'ha avuto l'incontro degli imprenditori di Santa Croce-Ponte a Egola con Bo Xilai, potentissimo dirigente del Partito comunista cinese ora caduto in disgrazia, la cui moglie, Gu Kailai, al centro di un intrigo internazionale e condannata per l'omicidio di un uomo d'affari inglese.

«Abbiamo conosciuto Bo Xilai nel 2002 – racconta Piero Maccanti, direttore dell'Associazione dei conciatori di Santa Croce –. Siamo andati in Cina per dare una consulenza sulla depurazione delle acque e l'uomo politico era governatore della provincia dello Liaoning: volevano capire come eravamo riusciti a sviluppare un polo conciario così importante salvaguardando l'ambiente, in una regione sensibile al problema come la Toscana. Poi, Bo Xilai è diventato ministro del Commercio estero – aggiunge Maccanti –, e dalla collaborazione tecnica è stato facile passare a quella commerciale».

Puntare al contenuto moda, proprio nel momento in cui cadevano le barriere doganali, ha rappresentato la carta vincente, l'asso nella manica dei conciatori che hanno realizzato un autentico salto di qualità: da semplici produttori di pellame e cuoio a interlocutori importanti delle grandi griffe, con l'introduzione in azienda della figura professionale dello stilista, in grado d'interfacciarsi con la clientela sulla scelta dei materiali e le tipologie di lavorazione. La gamma dell'offerta, poi, è stata notevolmente allargata con un miglioramento costante della qualità e del servizio.

È il percorso seguito dalla conceria Dolmen, 130 dipendenti e 45 milioni di ricavi (negli anni Novanta erano rispettivamente 30 e 10) in crescita del 15% nel 2012: «Tecnologia, qualità e un numero elevato di prodotti sono stati il motore della crescita», dice uno dei titolari, Pietro Giananti. «Oggi lavoriamo quasi esclusivamente con le grandi firme della moda, che in prevalenza hanno la base in Italia per quanto riguarda la pelletteria. L'aspetto ambientale è determinante – aggiunge – le maison vogliono materiali sempre più eco-compatibili e prodotti a impatto zero: continuiamo a investire in questa direzione e stiamo installando macchinari per circa un milione di costo in grado di eliminare ogni sorta di emissione».

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