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Questo articolo è stato pubblicato il 06 settembre 2012 alle ore 08:34.

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Forma urbis e natura agri. Il paesaggio emiliano introduce plasticamente a quella che l'idioma anglosassone ha ribattezzato food valley, una terra di mezzo nel cuore della pianura padana stretta tra l'Appennino e il Po. Le coordinate geografiche e lo srotolarsi di una storia che è un rincorrersi di stemmi nobiliari e reali (dai Farnese ai Borboni passando da Napoleone Bonaparte e gli Asburgo di Maria Luigia d'Austria) riassumono da sole le ricchezze racchiuse in questo terroir.

La declinazione francese è quasi obbligatoria. Non solo per le contaminazioni della lingua stendhaliana di cui i parmigiani portano i segni ogni volta che aprono bocca con l'erre che tende ad arrotarsi un po' di più quando si pronunciano due parole – parmigiano reggiano e prosciutto crudo – che da sole connotano un territorio, una storia, una vocazione e un distretto industriale, quello del cibo, forse, insieme all'opera lirica, trasfuso nella nozione stessa di italianità.

Il prosciutto non esisterebbe senza il grana. Il comune denominatore dei due prodotti è la conservazione. Il parmigiano nasce dalla necessità di non far irrancidire il latte fresco, il prosciutto dal bisogno di mettere al sicuro la carne, in questo caso la coscia, del maiale. Il sale non è mai mancato nel granducato. Le saline di Salsomaggiore ne assicuravano in quantità. Ora si utilizza esclusivamente sale marino per la sua capacità di penetrare e trasformare la composizione organolettica della carne. Il resto lo ha fatto la catena alimentare.

Per sfruttare al meglio il siero del latte, lo scarto della produzione del grana, qualcuno ha cominciato ad alimentare i maiali. Nascono così le porcilaie. E da lì la conservazione del prosciutto crudo. Nel 1963 una ventina di produttori creano il Consorzio. Agli albori una gestione casareccia che comunque anticipa le regole del disciplinare (1993) e nella Dop. Tre regole chiave: suini pesanti padani (Large White, Landrace, Duroc) allevati in dieci regioni del Centro-Nord, Friuli-Venezia Giulia escluso (lì si approvvigiona solo il San Daniele) minimo nove mesi di allevamento e 160 chilogrammi di peso prima della macellazione e un'alimentazione prevalentemente vegetale con la farina di pesce che nei primi tre mesi di vita ha rimpiazzato via via il siero del latte, ormai appannaggio dell'industria alimentare e di quella cosmetica.

Fino al 2001, quando è esplosa la Bse, si utilizzavano anche farine animali, poi bandite dal disciplinare. Il resto lo fa la stagionatura, che si può effettuare in una zona estremamente limitata che comprende il territorio della provincia di Parma ad almeno cinque chilometri a Sud della via Emilia, fino a un'altitudine di 900 metri delimitato a est dal fiume Enza e a ovest dal torrente Stirone. E a San Daniele il perimetro del Comune friulano. Due aree con un microclima particolare dove si mescolano l'aria marina con quella dei boschi. Il marchio che caratterizza i loghi del Consorzio di Parma e San Daniele viene apposto alle cosce stagionate dopo almeno dodici mesi: di lì in avanti il prosciutto crudo raggiungerà il grado massimo di perfezione dai 18 ai 24 mesi, con alcune tirature uniche che alcuni maniaci protraggono fino a 36 mesi. Roba da melomani del prosciutto, che non è raro scovare in vecchie salumerie con annesso ristorantino tra la bassa parmigiana o in certe zone remote del Friuli.

La ricetta a base di carne di maiale e sale, semplice e antichissima allo stesso tempo, è stata concepita per esaltare al massimo la sapidità del prosciutto. Sulle regole della Dop è praticamente impossibile transigere. I 160 stagionatori di Parma e (ma erano 200 solo un paio di anni fa) e i 27 di San Daniele, ricevono periodicamente le visite dell'Ipq, l'Istituto Parma qualità, e dell'Ineq, Istituto Nordest qualità, due organismi privati gemmati dal consorzio che certifica la conformità alle leggi di tutta la filiera. Un sistema blindato ma a maglie un po' più larghe che in passato. Tra i 4.800 allevatori, che in base allo statuto non possono sedere nel Cda del Consorzio ma solo essere invitati come osservatori senza diritto di voto, c'è un gran dibattito sulle razze di maiali ibridi, incroci tra le tre tipologie autoctone e suini del Nord Europa, che con l'aiuto della genetica superano ampiamente i 160 chilogrammi previsti dal disciplinare.

Lorenzo Fontanesi, una dei più grandi allevatori della bassa reggiana nonché presidente di Opas, l'organizzazione dei produttori allevatori suini, suggerisce un ritorno al passato: «Personalmente ho scelto di allevare solo razze italiane. Gli ibridi hanno carni più magre e uno spessore di grasso inferiore ai due centimetri previsti dal disciplinare. Altro aspetto fondamentale è elevare da nove a dieci mesi l'età minima per la macellazione. Adottando questi accorgimenti la qualità del prosciutto crescerebbe in modo esponenziale. Favorendo, di conseguenza, i consumi».

Altro tema rimasto in sospeso è la possibilità da parte degli stagionatori di conservare nei loro impianti dei prosciutti di provenienza straniera che nulla hanno a che fare con quello del Consorzio. In Italia si stagionano 35 milioni di prosciutti crudi ma solo 11,5 milioni (9 milioni Parma e 2,5 San Daniele) sono Dop. Le denominazioni delle altre cosce di maiale sono le più svariate e ingannevoli, come per esempio il "prosciutto di montagna". La Coldiretti sostiene «che due prosciutti su tre che il consumatore porta in tavola sono italiani di nome e non di fatto».

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