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Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2012 alle ore 08:59.

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«È dura, durissima, fare il pastore», dice l'imprenditore Paolo Mannoni. «I ragazzi – continua Mannoni – non hanno voglia di alzarsi all'alba ogni giorno, incluse le feste comandate». Ancora venti anni fa, Thiesi aveva 150 pastori. Oggi sono una trentina. Tutti sopra i 40 anni. Qui intorno in paesi come Ossi, Tissi e Sennori non vive più nemmeno un pastore. Nel Nuorese questa professione sta scomparendo. In tutta l'isola non avvengono più le transumanze. Cambiare il mangime costa meno di spostare le greggi. Giuseppe Canu è uno degli ultimi. Suo padre Carlo Francesco, ottantaduenne, ha fatto il pastore. Giuseppe ha 44 anni. Ha iniziato a 13, subito dopo la terza media. Qui a Thiesi è conosciuto da tutti come "Il Potente". Lo chiamano così per la forza fisica.

«I giovani non vogliono fare il mio mestiere – racconta Il Potente – perché non si guadagna bene. E, poi, anche con più soldi mica verrebbero a farlo. Costa troppa fatica. L'anno scorso io mi sono sposato e ho pagato una persona che, per quindici giorni, è venuta a dare da mangiare alle mie pecore». Così vanno le cose. Non c'è soltanto il rischio di perdere gli affari con l'estero. C'è anche la prospettiva del lento disperdersi di una civiltà pastorale che caratterizza la terra dei nuraghi, le costruzioni intorno a cui questi uomini, nel corso di quattromila anni, hanno elaborato una sapiente attitudine storica e ancestrale alla vita quasi simbiotica con gli animali, le pecore in particolare. «Ma, se i pastori scompaiono, che ne sarà del settore agroindustriale?», si chiede Francesco Pinna. Un problema economico. Ma anche identitario, dato che la lavorazione e la commercializzazione del formaggio rappresenta un fenomeno che ha consentito, da cento anni, di tenere insieme campi e fabbrica, civiltà contadina e secolo delle macchine.

Il Novecento è passato anche da qui. Nel 1923 i nonni di Andrea e Giommaria Pinna, che si chiamavano Francesco e Giommaria, lavoravano per conto di alcuni allevatori dei Castelli Romani il latte in piccole cave, con il metodo del fuoco diretto e della caldaia, ottenendo piccole forme, da dieci chili. Negli ultimi vent'anni la Fratelli Pinna ha investito in tutto 33,2 milioni di euro per ammodernare e ampliare il ciclo produttivo, in media il 3,5% dei ricavi di ogni esercizio. Non sarà la Bmw, ma di certo è una impresa con una fisionomia industriale precisa. Nella complessa variazione sarda non esistono soltanto i dati strutturali, ma anche gli elementi congiunturali. Esiste un problema di regolazione dei mercati, che ha prima gonfiato e poi sgonfiato la struttura produttiva. E c'è un tema finanziario. Che potrebbe minarla. Il costo del denaro è una variabile endogena quasi impazzita: gli imprenditori sardi pagano fra un punto e mezzo e due punti in più il credito rispetto ai già salassati colleghi del continente. Uno spread che vale soprattutto per il breve termine. E che sembra inesorabile, soprattutto per le microaziende. Quelle di Thiesi. E quelle di tutta l'isola.

Secondo l'ultimo studio della Banca d'Italia sull'economia regionale, i prestiti a breve hanno un tasso del 7,93 per cento. Per le piccole imprese (meno di 20 addetti) si sale al 9,31 per cento. «Si tratta di una situazione che rende tutto molto complicato», allarga le braccia Paolo Mannoni, uno che dal 2005 ha fatto cinque cause contro altrettante banche per spese eccessive, anatocismo e commissioni di massimo scoperto, vincendone quattro e ottenendo nella quinta un accordo extragiudiziale. In un contesto finanziario tanto complesso, diventa molto complicato per le imprese, peraltro spesso sottopatrimonializzate, elaborare strategie espansive. Mannoni e Pinna rappresentano due opzioni opposte. «Io ho scelto di ridurre la mia attività in maniera controllata e efficiente», dice il primo, che nel 2005 aveva un fatturato di 20 milioni di euro e una esposizione bancaria di 10 milioni e che, oggi, ha ricavi pari a 7 milioni di euro e zero debiti.

«Per noi – dicono i cugini Pinna – è importante puntare sullo sviluppo». Nel 2005 i ricavi erano pari a 45 milioni di euro e nel 2011 a 48 milioni, mentre nel 2012 sono rimasti di poco sotto i 50 milioni. Una crescita graduale ma significativa, data la rilevante contrazione del mercato. Una diversa attitudine – prudentemente difensiva o moderatamente aggressiva – che non nasce solo dal problema della reperibilità delle risorse finanziarie, ma anche dal nodo dell'atteggiamento psicologico verso la possibilità di non essere travolti dalle nuove (imponderabili) scelte dei consumatori del Michigan e dell'Italia, dell'Australia e della Cina.

«Siamo minuscoli – insiste Mannoni – e operiamo in una nicchia di mercato. Bisogna lavorare bene giorno per giorno, senza tanti grilli per la testa». Non è arrendevolezza, la sua. È pragmatismo, anche se venato da un po' di fatalismo insulare. Ha un'altra idea Francesco Pinna: «Sarebbe utile provare ad attuare politiche di brand». La sua azienda di famiglia ha tenuto anche grazie alla scelta, non scontata, di creare negli anni Settanta, il periodo dei sequestri in cui la sarda Orgosolo aveva la stessa aura nera della siciliana Corleone, il marchio Brigante, che oggi si trova nella grande distribuzione organizzata e nelle salumerie più chic di Milano e di Roma. In ogni caso, marketing o no, il passaggio attuale comporterà. «Thiesi non è solo Thiesi – riflette Lorenzo Idda, docente di economia politica e agraria all'università di Sassari – il settore agroindustriale è fondamentale perché pone in connessione economia e società, sistema produttivo e pastorizia, globale e locale».

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