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Questo articolo è stato pubblicato il 19 ottobre 2012 alle ore 11:00.

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«Ora le cose vanno un po' meglio, ma fino all'anno scorso viaggiavamo al ritmo di un licenziamento al giorno». Il signor Chen, un imprenditore taiwanese titolare di un'azienda di componentistica elettronica di Shenzhen che impiega 450 dipendenti, sa bene cosa significhi la parola turnover. Significa che la forza lavoro di una società cambia per effetto dell'entrata e dell'uscita delle maestranze. È un fenomeno fisiologico in qualsiasi azienda in ogni angolo del mondo. Ma se, come accade in Cina, la velocità con cui operai, impiegati e quadri entrano ed escono dal libro paga diventa eccessiva, il turnover può trasformarsi in un incubo.

Un incubo che negli ultimi anni non ha risparmiato nessuna società straniera. Dall'industria manifatturiera ai servizi, dalla logistica alla finanza, non c'è settore che non abbia sperimentato gli effetti del turnover. «La rotazione continua della forza lavoro - avverte Jan Borgonjon, presidente di Interchina Consulting - è un fattore d'instabilità di cui le aziende straniere devono tenere conto. Un turnover eccessivo, infatti, aumenta i costi, riduce la produttività, rischia la abbassare la qualità e amplifica anche il fattore incertezza legato all'insediamento di una società estera in Cina».

L'aspetto peggiore del turnover è sicuramente quello delle risorse sprecate nella formazione della forza lavoro. «Non fai a tempo a insegnare il mestiere a un operaio che questo è già pronto ad andarsene da un'altra parte per un pugno di yuan in più», si lamenta il signor Chen. Il fenomeno è amplificato nel caso delle grandi aziende manifatturiere dotate di linee produttive articolate e complesse che richiedono una continua assistenza tecnica. «Per essere sicuri di avere costantemente a disposizione una forza di pronto intervento sufficiente alla manutenzione dei macchinari, siamo costretti a stipendiare quasi 200 addetti all'assistenza, quando in qualsiasi altro posto del mondo ne basterebbero meno della metà», spiega il direttore di produzione di una multinazionale del settore automotive.

Ma ad andarsene dall'oggi al domani per un pugno di yuan non sono solo gli operai. Anche il personale più qualificato - tecnici, quadri, ricercatori - cambia casacca a ritmo vertiginoso. «È un problema enorme. Gli ingegneri neoassunti - si lamenta il responsabile delle divisione ricerca & sviluppo di un colosso tedesco dell'elettronica - stanno qui da noi massimo un anno e mezzo, giusto il tempo di imparare a fare qualcosa e mettere il nome di un'azienda famosa nel curriculum, e poi se ne vanno a lavorare in società cinesi dove vanno a guadagnare di più e dove spuntano anche avanzamenti di carriera».

La frenesia da turnover, soprattutto per le mansioni più qualificate e per i lavoratori neo-laureati, è legato anche a fattori culturali. «Spesso - osserva Gordon Styles, direttore generale di Star Prototype - le famiglie esercitano pressioni enormi sui giovani, facendogli credere di essere dei fenomeni e creando in loro delle aspettative smisurate. Il risultato è che questi ragazzi sono estremamente impazienti perché sono convinti di poter diventare capi-azienda già a 30 anni e la carriera diventa un'ossessione».

Grazie all'aumento dei salari registrato negli ultimi anni (il costo del lavoro dell'industria manifatturiera nelle aree urbane è triplicato dal 2003 al 2011), e forse anche a causa del rallentamento dell'economia domestica, come ammette lo stesso Chen, la situazione negli ultimi tempi è un po' migliorata. «Tre anni fa - dice Maurizio Galante, amministratore delegato di Omp Mectron, un'azienda meccanica di Shanghai - quando abbiamo iniziato la nostra attività in Cina abbiamo avuto seri problemi di turnover Oggi, però, la nostra forza lavoro è più stabile. Probabilmente, ciò è dovuto anche agli aumenti che abbiamo concesso ai nostri dipendenti: alcuni in tre anni hanno più che raddoppiato lo stipendio».

A soffrire di più la rapida rotazione della forza lavoro continuano a essere le società poco automatizzate, con produzioni a basso valore aggiunto. Oppure, le aziende che si ostinano a corrispondere bassi salari, come quelle taiwanesi che sono sicuramente le meno generose. O ancora, quelle che impiegano molta manodopera migrante da altre province cinesi. In questo quadro, la questione del turnover sembra essere più incalzante nel Guangdong che in altre aree industriali. «Oggi - conclude Alberto Vettoretti, direttore generale di Dezan Shira & Associates - le aziende straniere in Cina hanno nuovi problemi di risorse umane. Due su tutti: la scarsità di ingegneri e di tecnici specializzati e la difficoltà di convincere la forza lavoro altamente qualificata a muoversi dalle città alle fabbriche che ormai sono localizzate sempre più lontano dai centri metropolitani».

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