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Questo articolo è stato pubblicato il 22 ottobre 2012 alle ore 08:32.

FIESSO D'ARTICO (VE) - Soldi, qui, ne hanno fatti tanti. Non a sufficienza, però, per emanciparsi dagli "altri". Qui no xe Sior Louis Vuitton, non c'è il Signor Vuitton. Anche se, senza la Riviera del Brenta, chissà dove monsieur Vuitton produrrebbe le sue calzature.
Benvenuti nella campagna fra Venezia e Padova, da cinquant'anni tacchi e tomaie, suole e pelli per gli "altri".

Gli "altri" sono le grandi firme della moda e del lusso che vi fanno realizzare (e vi realizzano) le loro calzature (da donna, soprattutto). Scarpe che saranno poi acquistate a caro prezzo a Pechino dalle mogli dei mandarini del Partito comunista e, a Parigi, dalle ragazze con master all'Insead, a New York dalle analiste finanziarie e, a Rio de Janeiro, dalle nuove borghesi con villa nel quartiere di Santa Teresa. O, senza distinzione di ceto e di capacità di spese, da ogni donna che, risparmiando venti euro o venticinque dollari al mese, voglia a un certo punto provare (intimamente) ed esibire (in pubblico) il piacere di averne un paio ai piedi.
Vieni qui e capisci la forza e la debolezza dell'Italia manifatturiera, che pochi altri posti rappresentano bene come questo sistema distrettuale, formatosi negli anni Cinquanta e Sessanta con l'industrializzazione di una campagna e di un artigianato le cui origini risalgono al Duecento e al Trecento, quando i nobili della Serenissima si trasferivano in estate nelle ville in riva al fiume portandosi dietro la servitù, inclusi i "calegheri", i calzolai e i ciabattini, che a Venezia avevano fondato la loro confraternita nel 1268.

Dunque, la Riviera del Brenta è fedele all'archetipo di lungo periodo fissato da Carlo Cipolla in Storia facile dell'economia italiana dal Medioevo a oggi: "La missione dell'Italia è produrre all'ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo". Questa coerenza con il modello di sviluppo italiano, o almeno con quella parte che non ha conosciuto il fenomeno della grande fabbrica fordista e che invece si è fondata sulle economie di territorio, ha visto l'artigianato trasformarsi in piccola impresa industriale, nella perpetuazione e nella modernizzazione del sapere delle corporazioni medievali. Questa perpetuazione e modernizzazione si è nutrita dell'energia ossessiva degli imprenditori della Riviera che, oggi come nel periodo aureo degli anni Settanta e Ottanta, la domenica pomeriggio, a casa, si sentono un po' persi. Un'evoluzione di quasi mille anni che, però, è stata segnata dalla poca forza finanziaria e patrimoniale delle imprese. E dalla conservazione di un profilo prettamente manifatturiero. Nessuno è riuscito, nel percorso dai laboratori artigiani alle organizzazioni industriali, a compiere il passo ulteriore: la creazione di un marchio in grado di imporsi sui mercati internazionali. «Noi – dice Luigino Rossi, uno dei padri nobili del distretto – non abbiamo mai avuto i capitali con cui fare il grande salto, con marchi e negozi nostri».

Luigino Rossi è entrato a 17 anni nel laboratorio artigianale del padre Narciso, che allora aveva cinque dipendenti. Nel 1960 prende l'aereo per Parigi, acquista le calzature degli stilisti, torna sulla Riviera e, insieme al papà, viviseziona la scarpa destra di ogni paio. «Era un rito. "Ma guarda che colla hanno adoperato. Ma vedi qui il materiale. E questa lavorazione?" Ogni volta io e mio padre ci rendevamo conto che le nostre scarpe erano fatte meglio rispetto a quelle che avevo preso a Parigi».
L'intuizione, allora, si rivela giusta. Nel 1963 capita l'incontro che avrebbe cambiato la sorte imprenditoriale di Rossi e che avrebbe, di fatto, segnato anche il destino produttivo della Riviera, trasformandola in un gigantesco laboratorio di lavorazione conto terzi per il lusso internazionale: «Conobbi Yves Saint Laurent», dice Rossi. Da allora quasi tutti i grandi stilisti stranieri hanno scelto Luigino Rossi per realizzare le loro calzature. Una traiettoria conclusasi, nel 2003, con la cessione dell'azienda a Lvmh (Vuitton).

Rossi, che oltre a essere stato il presidente degli imprenditori calzaturieri italiani ed europei è stato anche editore del Gazzettino di Venezia, ha il realismo dolce dell'establishment del Nord-Est, composto da persone che hanno creato dal nulla imprese strutturate e redditizie, ma che si ricordano qual era il punto di partenza, quando la polenta era qualcosa di ben diverso dall'alimento base da usare per i piatti di cucina destrutturata. E, dunque, accettano con tranquillità il profilo del presente. Rossi conosce bene le imprese della Riviera. «I margini netti – osserva – sono sempre stati compresi fra il 3 e il 5%. E i fatturati non sono mai stati giganteschi. Qui abbiamo sempre avuto aziende di piccola o media dimensione». L'accumulazione di capitale, dunque, non c'è mai stata, perché semplicemente non poteva esserci. Sì, gli artigiani-imprenditori hanno acquistato ville meravigliose sul fiume Brenta. Questa campagna veneta, che fino agli anni Cinquanta ha conosciuto la povertà, ha capito che cosa è il benessere. Ma non in misura così rilevante da permettere l'ultimo passo. «Anche se – nota l'industrialista Giampaolo Vitali, segretario del Gruppo economisti di impresa – questa particolare dimensione ha consentito all'insieme della struttura produttiva di superare, pur fra mille difficoltà, la grave crisi che si è verificata fra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila».

Nelle alchimie del capitalismo italiano e internazionale non ci sarà forse stata la combinazione giusta, fra fattori umani e materiali, perché una griffe del lusso (o anche solo un marchio autonomo di fascia alta) venisse generata dagli eredi dei calegheri veneziani. Ma, di certo, questi ultimi avrebbero potuto, nei duri anni Novanta, fare una brutta fine. Come è successo a Vigevano. «E invece – riflette Vitali – proprio l'elasticità e la flessibilità di questa fisionomia produttiva hanno consentito la sopravvivenza del distretto e la selezione dei più virtuosi». Secondo gli ultimi dati elaborati dall'Acrib, l'Associazione calzaturifici della Riviera del Brenta, qui ci sono 568 imprese che danno lavoro a 10.516 addetti e che, producendo poco meno di 20 milioni di scarpe all'anno, sviluppano un fatturato aggregato di 1,65 miliardi di euro. Nel 2001 le imprese erano 993. Dunque, quasi il doppio rispetto al numero attuale. Impiegavano molto più personale: 14.260 addetti. Un quarto secco in più di adesso. Producevano poco più di adesso: 21,3 milioni di paia di scarpe. E sviluppavano un fatturato aggregato quasi identico: 1,68 miliardi di euro. Giusto per usare il criterio del medio periodo, nel 1991 le aziende erano 832 con 9.419 addetti e un valore storico di 800 miliardi di lire.

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