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Questo articolo è stato pubblicato il 22 ottobre 2012 alle ore 08:32.

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In questi vent'anni, l'unica cosa che non è cambiata è la quota di export: più o meno il 90% dei ricavi aggregati. Per il resto, qui è davvero cambiato tutto. Di fronte alla crisi nera innescatasi fra il 1994 e il 1995 a causa della contrazione dei consumi del ceto medio europeo a cui si rivolgeva una buona parte della produzione, questo sistema di sviluppo locale aveva due opzioni: portare all'estero la produzione, come ha fatto buona parte del Nord-Est, abbattendo i costi e accettando però l'auto-spoliazione delle competenze e lo scivolamento verso il basso della qualità; oppure provare a conservare le posizioni di mercato, magari alzando ancora il livello della qualità, sapendo che a quel punto tutto si sarebbe giocato sul controllo dei costi operativi e del costo del lavoro di un ipotetico bilancio consolidato della Riviera del Brenta. «Abbiamo scelto tutti insieme – racconta il presidente dell'Acrib, Siro Badon – di provare ad alzare la qualità. È stato un processo non semplice. Siamo riusciti a farlo con l'accordo totale del sindacato, con cui abbiamo realizzato le ristrutturazioni».

La Riviera del Brenta è forse il posto in Italia in cui i meccanismi concertativi fra associazioni delle imprese e sindacati hanno funzionato meglio. «Ogni parte secondo le proprie prerogative e i propri interessi – spiega Valeria Fedeli, leader dei tessili della Cgil – abbiamo definito ogni passo. Non soltanto sul tema della riduzione del costo del lavoro. Anche sulla strategia di medio e lungo periodo». Non è stato facile. Fra il 1995 e il 2007, qui hanno chiuso 330 aziende. Un trauma, per un pezzo d'Italia che, dai tempi del boom economico, non aveva mai conosciuto i fallimenti e le chiusure forzate. Probabilmente, per questa alleanza fra imprese e sindacati, è servita la tradizione di sinistra, in particolare viva nel Veneziano, in contrasto con l'eterna Balena Bianca del Veneto, sopravvissuta nello spirito (e nei meccanismi di potere) anche alla fine della Dc.

In un contesto tanto complesso, esiste un tema di managerializzazione delle imprese che può corrispondere a una fase diversa di sviluppo. A Fiesso d'Artico la famiglia Ballin ha affidato la guida operativa dell'omonimo gruppo (una sessantina di milioni di fatturato quest'anno, contro i 53 del 2011) a un manager esterno di estrazione Marzotto, Luigi Valsecchi, che ha sdoppiato la struttura societaria per razionalizzare le attività (produzione e sviluppo del brand) spingendo soprattutto su quest'ultima attività. Produzione per le griffe o marchio proprio, la ricetta è sempre quella: export, export, export. «L'area più interessante – spiega Valsecchi – è l'ex Unione Sovietica».
Se la managerializzazione è una opzione, un'altra possibilità è rappresentata dalle reti di impresa. Una forma associativa che, timidamente, sta prendendo piede nel capitalismo produttivo italiano. A Fiesso d'Artico si trova il punto vendita "Corte della pelle", che rappresenta una prima iniziativa di una rete di imprese formata da quattro piccole aziende della Riviera e da una banca, Antonveneta. «La forma associativa – dice l'imprenditore Mauro Zampieri – consente di avere un altro peso nel rapporto con le grandi reti commerciali, nella vendita dei nostri prodotti e nella successiva gestione dell'invenduto». Oltre, naturalmente, ad aprire la prospettiva di andare sul mercato con negozi propri. «Questa iniziativa ci incuriosisce – commenta Enzo Nicoli, responsabile della direzione corporate di Antonveneta – perché rappresenta un metodo intelligente per provare a ovviare deficit strutturali come la piccola dimensione e la sottocapitalizzazione».

Provando e riprovando. L'economia italiana è cresciuta soprattutto così. Anche se, il problema, è appunto che, sopra una certa dimensione, sembra difficile andare. Giuseppe Baiardo, nel 2005, ha venduto la sua Iris a un gruppo giapponese, Onward Kashiyama, che fattura 3,5 miliardi di euro. Iris continua a gestirla lui, gli "altri" sono buoni azionisti che vogliono un ritorno sul capitale accettabile. «Semplicemente – spiega Baiardo – non avevo i soldi per sviluppare il mio brand. Non ho sensi di colpa: va bene così. È successo a tanti altri. In fondo gli unici marchi della Riviera sono Giorgio Moretto, che è stato rilevato da Prada, e Caovilla, un genio rinascimentale che però opera in una nicchia».
Baiardo non dimostra rimpianti, mentre nello stabilimento di Fossò accarezza come fosse il piede di una donna una scarpa di John Galliano, tacco venti, una vertiginosa architettura in miniatura. «La nostra abilità è fabbricare le cose pensate da altri. Nella fase di industrializzazione ho ingegneri e fisici che fanno i calcoli. Sono orgoglioso e pazienza se gli altri vendono a cento e io guadagno dieci».

Dai calzolai chini sotto la lampada agli ingegneri nucleari che progettano i tacchi a computer. Per questo, qui, sono venuti gli "altri", le griffe che dominano i mercati globali. Armani ha rilevato quattro imprese. Prada ha preso uno stabilimento. Louis Vuitton ha fatto due acquisizioni e aperto uno stabilimento nuovo. Operazioni strategiche, sotto il profilo industriale. «La Manufacture de Souliers Louis Vuitton di Fiesso d'Artico – conferma Serge Alfandary, direttore della divisione calzature di Louis Vuitton – ha 362 dipendenti, di cui 225 artigiani che lavorano non solo alle fasi produttive, ma anche di studio e di progettazione di tutte le calzature Louis Vuitton».
Luigino Rossi ha un'idea precisa sugli investimenti realizzati nella Riviera del Brenta: «In pochi anni, soltanto Parigi ha mosso non meno di 120 milioni di euro». Non male, in un Paese che si lamenta di non sapere attirare capitali stranieri. Anche se, certo, dispiace l'assenza dell'ultimo (autonomo) passo verso il capitalismo dei grandi marchi (e dei grandi guadagni). «Come sistema italiano abbiamo perso l'occasione negli anni Ottanta – racconta Rossi – allora avremmo potuto stringere una alleanza vera con gli stilisti italiani. Soltanto che loro ci domandavano il 15% delle vendite, contro il 7% che per esempio ci chiedeva Yves Saint Laurent. Così, molti di noi hanno preferito lavorare con gli stranieri. E, soprattutto, non è sorta alcun alleanza strategica fra connazionali. La storia italiana poteva essere diversa. Unendoci avremmo forse potuto avere l'equivalente dei gruppi Pinault e Arnault».

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