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Questo articolo è stato pubblicato il 07 dicembre 2012 alle ore 10:56.

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Tre ragazzi in maglietta rossa salgono e scendono agilmente da pedane mobili con inclinazioni da brivido. Un altro prova a stare in equilibrio su una lastra ghiacciata dentro una stanza climatizzata a -30 gradi. Altri due affrontano una ripida discesa su un sentiero cosparso di tronchi scivolosi come saponette.

«Questa è la prova del nove della tenuta perfetta delle nostre suole in diverse condizioni ambientali», spiega Matteo Crovetto, direttore generale di Vibram China, mostrando con orgoglio il centro di ricerca e sviluppo dell'azienda italiana a Canton. «Grazie a questo sistema di simulazioni, che si affianca alla ricerca e ai test sui materiali svolta in questa stessa struttura dal nostro personale specializzato, il cliente parte dall'Italia con un disegno in tasca e, in soli dieci giorni, se ne torna a casa con il prototipo della suola pronto per essere messo in produzione», aggiunge Crovetto.

Sessanta dipendenti, 20 milioni di dollari d'investimento, l'avveniristico Vibram Performing Test Center di Canton è nato quasi per caso. Nel 2005, quando i re delle suole in gomma sbarcarono in Cina, l'idea era assai più banale: realizzare uno stabilimento per la produzione locale. Strada facendo, però, la famiglia Bramani (azionista unico di Vibram) intuì che in Cina c'erano le condizioni per osare di più: e così si arrivò alla decisione di aprire un centro per la ricerca e sviluppo e il controllo qualità, continuando a delegare la produzione di massa a una rete di terzisti qualificati.

Alla fine si è rivelata un'intuizione vincente. «Qui dentro oggi siamo in grado di realizzare produzioni tecnologicamente avanzate sfruttando la supply chain, i materiali e il personale specializzato cinese», dice Crovetto. Con molteplici vantaggi. Grazie al Performing Test Center di Canton, Vibram è vicina ai suoi clienti (quasi tutte le aziende di calzature tecniche, ormai, realizzano una buona parte della loro produzione in Cina), minimizza il time to market, può sviluppare prodotti per il mercato locale in vista di una sua futura esplosione, lavora con costi più bassi, anche se questa non è una variabile determinante visto che la società deve comunque sostenere ingenti spese di formazione per il personale.

Negli ultimi anni, il numero di aziende straniere che hanno deciso di aprire un centro di R&S in Cina è cresciuto in misura esponenziale. L'ultima a muoversi in questa direzione è stata Pepsico che, giusto qualche settimana fa, ha inaugurato a Shanghai il suo più grande polo di ricerca e sviluppo al di fuori degli Stati Uniti, con un investimento si oltre 40 milioni di dollari. Secondo Jan Borgonjon, presidente di Interchina Consulting, sono tre i fattori che spingono un'azienda a stabilire una piattaforma di ricerca e sviluppo in Cina. Il primo è politico: le autorità cinesi chiedono in modo sempre più pressante agli stranieri di importare tecnologie nel Paese. «Per le aziende estere dell'auto, aprire centri di ricerca e sviluppo in Cina è diventato un obbligo», osserva Borgonjon. Come contropartita, spesso Pechino offre incentivi fiscali.

C'è poi la necessità di mettere a punto prodotti in grado di soddisfare la domanda locale. Questo vale per le aziende che devono adattare i prodotti alle normative tecniche cinesi, come Brembo China: «Nel nostro centro di Nanchino testiamo i freni che abbiamo già sviluppato in Europa, ma che devono essere adattati alle vetture prodotte in Cina», spiega il direttore generale Massimo Carrara. E vale anche per le aziende che, invece, devono andare incontro ai gusti dei consumatori: è il caso della Perfetti, che a Shanghai studia colori, aromi e sapori delle sue Alpenliebe made in China.

Infine c'è il fattore costi e a beneficiarne di più sono le aziende del settore chimico-farmaceutico, elettronico e informatico, che oggi in Cina trovano ampia offerta di tecnici e ingegneri di discreto livello (il personale va sempre formato perché le competenze di partenza sono sempre piuttosto scarse), a salari ancora piuttosto contenuti.

I laboratori di idee, però, corrono costantemente un rischio: che i cinesi rubino le tecnologie. «Dopo aver saccheggiato il know how ai giapponesi, soprattutto nell'auto, da qualche anno - racconta un consulente - i cinesi hanno preso di mira il made in Germany. E hanno il sostegno del Governo che esercita enormi pressioni sulle società tedesche per costringerle ad aprire dei centri di ricerca nelle loro fabbriche. Ciò sta creando parecchia irritazione. Purtroppo, spesso non c'è alternativa perché, se non si trasferisce tecnologia in Cina, si rischia di uscire, o di non entrare nemmeno, in questo mercato».

Per difendersi bisogna giocare d'astuzia e lavorare di fantasia. «Quando vendiamo i nostri servizi alle joint venture cinesi di Bmw o Mercedes - spiega Carrara di Brembo - imponiamo limiti precisi all'accesso dei dati, in modo da garantirne la segretezza e la confidenzialità. E poi, per tutelarci sul fronte delle risorse umane, stipuliamo contratti di lavoro blindati a chi svolge funzioni sensibili nell'attività di ricerca e sviluppo».

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