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Questo articolo è stato pubblicato il 19 marzo 2013 alle ore 13:24.

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Wen Jiabao l'ha ribadito nel suo discorso tenuto all'Assemblea Nazionale del Popolo. «Continueremo a promuovere l'internazionalizzazione dello yuan», ha detto qualche giorno fa il premier cinese parlando ai 3mila delegati convocati a Pechino per la sessione annuale del Parlamento. E alle parole sono seguiti subito i fatti. Venerdì scorso Cina e Singapore hanno raggiunto un accordo per raddoppiare a 48 miliardi di dollari i currency swap in yuan tra i due Paesi.

Lanciati durante la crisi del 2008-2009 per sostenere le esportazioni, gli scambi valutari con le nazioni emergenti sono diventati un potente strumento per diffondere l'uso dello yuan all'estero. Dando luogo a una situazione piuttosto singolare: sebbene la moneta cinese non sia ancora pienamente convertibile (lo è nella bilancia delle partite correnti, ma non in quella dei movimenti di capitali), viene comunque utilizzata su larga scala non solo per regolare le transazioni commerciali, ma anche per emettere obbligazioni societarie o effettuare investimenti diretti cinesi all'estero e viceversa.

Oggi nel mondo ci sono oltre 10mila istituzioni finanziarie che fanno affari servendosi dello yuan (erano 900 nel giugno 2011). A soli tre anni dalla sua creazione, il mercato offshore del renminbi (il principale è a Hong Kong, ma si sono aggiunte anche Taiwan e Singapore) ha raggiunto un valore di 143 miliardi di dollari. Frattanto, la proporzione dei flussi import-export cinesi regolati in yuan è aumentata di sei volte arrivando al 12% del totale.

Ma la valuta non si è affermata a livello globale solo come mezzo di scambio. Nel 2012 gli investimenti stranieri in Cina denominati in yuan sono quasi triplicati, mentre quelli cinesi effettuati oltrefrontiera utilizzando il renminbi sono aumentati del 50%. «Di questo passo, entro il 2015, un terzo delle transazioni commerciali di Pechino sarà effettuato in yuan: ciò significa che per allora la moneta cinese diventerà la terza valuta di regolamento internazionale per volume» spiega Qu Hongbin, capo economista per l'Asia di Hsbc. Che con le sue previsioni si spinge anche oltre: «Entro cinque anni, lo yuan potrebbe diventare pienamente convertibile», aggiunge Qu.

La piena convertibilità è la condizione necessaria affinché, come auspicato da Pechino, il renminbi si trasformi a tutti gli effetti in una valuta di regolamento internazionale. Ma il processo potrebbe richiedere un passo successivo e un bel po' di tempo supplementare. «Sull'argomento c'è un bel po' di confusione - avverte Kenneth Courtis, ex guru per i mercati asiatici di Goldman Sachs - Un conto, infatti, è la piena convertibilità e un conto è la libera convertibilità di una moneta».

La prima è quella che tecnicamente renderebbe possibile la conversione del renminbi in altre valute internazionali. Ciò consentirebbe agli investitori e agli imprenditori stranieri operanti in Cina di effettuare in un quadro certo e trasparente una serie di operazioni che attualmente risultano ancora laboriose e complesse (per esempio, rimpatriare senza problemi i propri capitali).

Sulla moneta, tuttavia, continuerebbe a gravare una serie di vincoli amministrativi. Con la piena convertibilità, in sostanza, la Cina si ritroverebbe grosso modo nella situazione dell'India, del Brasile o di molti altri paesi emergenti che hanno monete pienamente convertibili a fronte però di mercati valutari domestici molto rigidi e regolamentati che ostacolano la fluida circolazione di queste monete su scala globale.

La seconda, invece, è la libera circolazione caratterizzata dall'abbandono dei controlli sul cambio: ma di questo Pechino non ha mai parlato perché è uno scenario che richiederebbe un profondo cambiamento del mercato finanziario domestico inimmaginabile oggi. «Con queste premesse, per la piena convertibilità ci vorranno altri 5 anni, mentre per la libera convertibilità bisognerà attendere almeno il 2023 se non di più», conclude Courtis.

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