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Questo articolo è stato pubblicato il 23 luglio 2013 alle ore 06:49.

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La meccatronica è uno dei cuori pieni della modernità.
La meccanica è stata la struttura industriale portante – ma anche la prospettiva concettuale – dell'Ottocento e del Novecento. L'elettronica ha rappresentato la frontiera tecnologica più avanzata dalla seconda metà del secolo scorso. Il manifatturiero ritrovato è oggi riassumibile nella formula accattivante di Chris Anderson dei "Makers" (gli artigiani digitali) o negli scritti più tradizionali dell'economista di Harvard Gary Pisano (fondamentale per il "back to manufacturing" dell'amministrazione Obama).
In questo nuovo campo – economico ma anche simbolico – appare centrale un canone ibrido delle due categorie tecno-produttive: appunto, la meccatronica. Con i limiti, ma anche con i punti di forza del suo modello produttivo, l'Italia c'è.
C'è prima di tutto sotto il profilo della reazione alla crisi innescatasi con il contagio al manifatturiero del collasso dell'economia finanziaria: nel 2008, anno in cui gli impiegati della fallita Lehman Brothers venivano fotografati con gli scatoloni in mano, la meccatronica italiana riusciva a fatturare 352 miliardi di euro, 91 dei quali destinati all'export; nel 2009, anno in cui il virus della turbofinanza ha incominciato ad attecchire nel sistema industriale di tutto il mondo, il giro d'affari complessivo della meccatronica italiana è sceso a 286 miliardi di euro (di nuovo, circa un terzo ottenuto sui mercati internazionali); nel 2010 la prima risposta positiva da parte del sistema industriale italiano, la cui meccatronica ha ottenuto ricavi aggregati per circa 300 miliardi di euro (una ottantina da export); nel 2011 il vero recupero a 319 miliardi di euro di fatturato: una novantina di miliardi l'export, ormai ai livelli precrisi, mentre continuano a mancare - rispetto a tre anni prima - 35 miliardi di mercato interno. L'anno scorso, la stabilizzazione: ricavi aggregati a 321,4 miliardi e di nuovi export a 90 miliardi di euro.
Al di là dei numeri assoluti, appare interessante la dinamica intra-europea, o meglio pan-europea. Nel senso che la meccatronica, insieme all'automotive, è il comparto che si presta meglio a essere interpretato con una logica di ispirazione krugmaniana: l'Europa come una "Region", una delle macro-piattaforme in cui la manifattura internazionale si è riorganizzata con l'ultima globalizzazione.
Da questo punto di vista, per il nostro Paese prima di tutto viene confermata la simmetria minoritaria rispetto alla Germania. Ancora una volta, in uno dei comparti che rappresenta una sorta di infrastruttura che pervade tutta la manifattura globale, esiste una analogia italo-tedesca. A debite proporzioni, però. Secondo l'Eurostat, infatti, l'Unione europea a 27 membri ha 156.154 imprese specializzate nella meccatronica. Di queste, 25.036 sono in Germania. L'Italia ne ha 30.496. Naturalmente il peso specifico dei singoli sistemi produttivi nazionali è ricavabile dall'incidenza degli addetti: su poco meno di quattro milioni di addetti, 1,7 milioni operano nel manifatturiero tedesco; 650mila in quello italiano. Per citare l'altro sistema nazionale che rappresenta un caposaldo del manifatturiero continentale, in Francia le aziende della meccatronica sono 9.635 e danno lavoro a mezzo milione di persone. Il numero medio degli addetti per impresa in Italia è di 22. In Francia è di 52. In Germania è di 68. «Dunque – nota l'economista Mauro Zangola – ancora una volta, non solo nei confronti della Germania, ma anche della Francia, si pone la questione dimensionale».
Il problema non è tanto la constatazione di una sub-ottimalità propria di una taglia inferiore agli standard europei: l'efficienza - soprattutto in alcune fasce di addetti - è pari se non superiore a quella tedesca; il tema è l'assenza di strutture industriali di grandi dimensioni, le quali possano collocarsi nelle parti alte delle catene della fornitura del manifatturiero industriale, trattenendo porzioni più cospicue di valore aggiunto e soprattutto avendo un ruolo meno ancillare nel grande gioco del capitalismo globale. «La meccatronica – osserva Giampaolo Vitali, industrialista del Ceris-Cnr e segretario del Gruppo economisti di impresa – svolge una tipica funzione di fluidificante tecnologico e di fornitrice di sistemi e di servizi per le grandi imprese che si occupano, in prima battuta, di automotive, di aeronautica e di aerospazio».
In realtà, però, i suoi prodotti pervadono tutta la manifattura internazionale. È certo possibile offrire i tuoi prodotti a Giacarta e a Los Angeles, a Shanghai e a Mumbai, da Nichelino o da Reggiolo, da Sesto Fiorentino o da Treviso: il nodo è se la tua azienda ha mille dipendenti o ne ha soltanto cinquanta, con tutti gli annessi e connessi in termini di capacità di fuoco commerciale, solidità patrimoniale e sostanza tecnologica.
Il futuro della meccatronica italiana appare dunque strategico per le sorti di tutto il nostro manifatturiero. Non soltanto per la sua capacità di connettersi alle catene del capitalismo globale. Anche per ragioni di equilibrio interno a un sistema industriale che sta sperimentando una crisi così intensa da dare l'impressione di una prima, profonda, erosione della sua base industriale. Il settore esprime infatti il 15% del fatturato manifatturiero italiano. In particolare, la meccatronica appare davvero una delle strutture portanti del nostro sistema industriale: il 75% si trova nel Nord, il 13% nel Centro e il resto nel Sud. Una distribuzione geografica che corrisponde anche a una capacità di generare ricchezza in questo settore: al Nord è riferibile l'80% del valore complessivo italiano. Naturalmente, in coerenza con la multispecializzazione tipica del nostro capitalismo produttivo, non esiste un unico posizionamento di mercato. Come ha dimostrato l'analisi condotta su questo comparto da Antares e dalla Fondazione Irso. «Le specializzazioni delle regioni del Nord non sono omogenee – sottolinea il sociologo economico Paolo Perulli – per esempio, in termini di vantaggio competitivo, il Veneto appare sopra le altre per gli apparecchi elettrici, mentre lo stesso capita all'Emilia Romagna per i macchinari di impiego generale e alla Lombardia per le macchine utensili».

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