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Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre 2013 alle ore 14:03.
L'ultima modifica è del 20 novembre 2013 alle ore 14:08.
Tutto Italiano
«La normativa italiana ha compiuto un ulteriore passo con il Dl 135/2009 (decreto Ronchi, convertito nella legge 166/2009), finalizzato a distinguere chi produce interamente – meglio, esclusivamente - in Italia e chi invece compie solo l'ultima trasformazione (o lavorazione) sostanziale sulla merce o sul prodotto», afferma Bana.
Così l'articolo 16 di questo decreto modifica l'articolo 4, comma 49, della legge 350/2003. E obbliga il titolare o il licenziatario di un marchio a indicazioni precise ed evidenti sull'origine o provenienza. Introduce (comma 1) anche il criterio per cui «si intende realizzato interamente in Italia il prodotto o la merce, classificabile come made in Italy ai sensi della normativa vigente, e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano». «Vi è dunque un "premio" per chi non delocalizza la produzione», commenta Bana. «Perché il suo prodotto non è un made in Italy qualunque ma un "100% Made in Italy"». Indicazioni di vendita sinonime sono "100% Italia" o "Tutto Italiano".
Tessile, pelletteria e calzature
«È poi giunta la legge 55/2010 (legge Reguzzoni), che riguarda i prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri. E nasce dai cosiddetti cultori del tessile, che hanno dato luogo a un movimento per il "fatto in casa"», dice Bana. La legge richiede la tracciabilità del luogo di origine di ciascuna delle fasi di lavorazione, per identificare l'impresa, qualificare la produzione, offrire informazioni ai consumatori.
Il marchio "Made in Italy" è allora utilizzabile solo per prodotti finiti, le cui fasi di lavorazione (specificate dalla stessa legge per ognuno dei tre settori in esame) siano state svolte prevalentemente sul territorio nazionale. In particolare, recita la norma, l'indicazione è permessa se «almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità».
«Forse si potrebbe fare a meno di tutto questo», commenta l'avvocato Bana. «Le norme già esistenti funzionerebbero lo stesso. Salvo il verificarsi di casi scolastici di imprenditori che operano senza idonea attrezzatura, compiendo operazioni economicamente ingiustificate; o attuano trasformazioni sostanziali che però non costituiscono una fase importante del processo di trasformazione». Resta da vedere se le due fasi di lavorazione da compiere in Italia integrino la "lavorazione sostanziale" che secondo il Codice doganale definirebbe il prodotto italiano. C'è infatti un disallineamento rispetto a quanto previsto dal Cdc, e i decreti attuativi di questa legge sono stati bloccati in sede comunitaria.
Origine o provenienza vs Made in Italy
Un punto, infine. C'è un consolidato principio giurisprudenziale ribadito anche dalla Cassazione (ad esempio, sentenza 19650/2012), secondo il quale per "origine" o "provenienza" di un prodotto si deve intendere non la sua provenienza da un determinato luogo di fabbricazione, ma da un determinato produttore che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione, e si fa garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti. Vale per i prodotti industriali e per quelli agroalimentari generici (cioè non Igp o Dop).
Si può quindi apporre il proprio marchio e luogo di stabilimento (italiano) alla merce senza incorrere nel reato di «vendita di prodotti industriali con segni mendaci» (articolo 517 del codice penale). Ma un conto è indicare nome del produttore e località dove ha sede, altro è applicare la scritta «Made in Italy».
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