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Questo articolo è stato pubblicato il 21 novembre 2013 alle ore 06:52.
L'ultima modifica è del 21 novembre 2013 alle ore 08:46.

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Ci risiamo. I commisari dell'Ilva Ronchi e Bondi sono pronti a dimettersi. Sembra un incubo e invece è il paradosso in cui rischia di cadere la più grande acciaieria d'Europa. In sintesi estrema: i commissari hanno bisogno dei fondi sotto sequestro per procedere con l'attuazione del risanamento ambientale; i magistrati negano lo sblocco delle somme. I commissari chiedono le autorizzazioni per i lavori; il Comune di Taranto non le concede perché i funzionari sono afflitti da una sindrome acuta di eccesso di prudenza. Gli enti locali muovono rilievi all'Aia fin troppo zelanti; l'Aia, e con essa il nuovo piano industriale, non decollano.
Di conseguenza, i magistrati intimano ai commissari Ilva di rispettare i tempi. Ma sono essi stessi e le istituzioni a legare loro le mani. Una rete burocratica e decisionale in cui rischiano ancora una volta di rimanere impigliati la fabbrica, i suoi lavoratori (19mila con l'indotto), i fornitori e l'intera filiera dell'acciaio italiano. Ma soprattutto la città di Taranto che, forse per eccesso di zelo, non si accorge di frapporre ostacoli che rischiano di diventare insormontabili proprio al risanamento ambientale della fabbrica e del territorio. Un autogol di proporzioni gigantesche, se si considera che il piano dei commissari prevede un investimento di 4,5 miliardi di euro, il più grande nel Mezzogiorno dopo la Fiat di Melfi, l'utilizzo di tecnologie d'avanguardia (come lo shale gas) e ha come obiettivo far diventare l'Ilva l'acciaieria più ecologica d'Europa.

Ma a Taranto c'è un clima a dir poco bizzarro. Il presidente dell'ordine degli architetti della città, in un'intervista alla Gazzetta del Mezzogorno, contesta il progetto di copertura dei parchi minerali (le polveri dell'acciaieria sono state la principale fonte d'inquinamento) perché i capannoni sono troppo alti e deturpano il paesaggio. Per inciso, quello della copertura dei parchi minerali è il primo appalto assegnato dall'Ilva alla Cimolai di Udine, una delle imprese campioni del made in Italy.
Fanno bene i commissari a chiedere al Governo un chiarimento. In gioco non c'è solo l'Ilva di Taranto, di per sè una posta altissima, ma la cultura industriale del Paese. Il clima anti-fabbriche che riemerge carsicamente, anche in luoghi istituzionali come le Procure o i Comuni, può generare solo mostri.

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