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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2014 alle ore 09:01.
L'ultima modifica è del 03 febbraio 2014 alle ore 09:12.

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Oltre 1.600 miliardi di dollari di asset, una cifra astronomica. A tanto ammonta la potenza di fuoco dei fondi sovrani del Medio Oriente. A loro guarda il premier Enrico Letta, in questi giorni di missione fra gli Emirati, il Qatar e il Kuwait per presentare, fra le altre cose, il piano "Destinazione Italia". E loro, i fondi sovrani, guardano a noi.

Ventotto gli investimenti compiuti nel nostro Paese - tra fondi mediorientali e non - per un totale di 5,1 miliardi di dollari immessi (dato ad aprile 2013). Tutte operazioni di grandi dimensioni, tutti target sopra i 500-700 milioni di euro. Finora. Perché la buona notizia è che questi fondi guardano con crescente interesse al nostro Paese e sono pronti ad abbassare il target dimensionale. Una manna per il made in Italy in tempi di credit crunch.

Di quanto sono disposti a scendere? In linea teorica anche tantissimo: c'è un imprenditore sardo, oggi, che si gode il sole del Qatar dopo aver venduto a una ricca famiglia locale la sua azienda per la lavorazione del marmo da dieci dipendenti soltanto. Franco Masera, senior advisor di Kpmg, nell'autunno scorso è volato in Qatar per sondare l'opinione dei fondi sovrani locali. Di Italia se ne intendono: hanno comprato Valentino, gli hotel di Smeralda Holding, e una fetta del Progetto Porta Nuova a Milano. Con il loro aiuto ha tracciato l'identikit dell'impresa target del made in Italy: chi di noi può qualificarsi per un investimento? «I settori a cui questi Paesi sono interessati sono di fatto due – spiega Masera – uno è il fashion, l'altro è il real estate. Abbigliamento e scarpe, quindi, oppure design d'interni e lavorazione di materiali per l'edilizia».

A seconda del comparto, però, il target cambia, e anche di molto: «Per i marchi della moda – prosegue Masera – non sono disposti a scendere sotto un certo livello di fatturato. Diciamo 200 milioni di euro. Meglio ancora 500». Il che taglierebbe le gambe a parecchi dei nostri big non quotati in Borsa, da Cavalli - i nomi, è bene dirlo, sono a puro scopo esemplificativo - a Trussardi. «Anche se, quando nei nostri colloqui abbiamo nominato Kiton (la sartoria napoletana), hanno dimostrato apprezzamento e interesse», ammette Masera. E questa è la dimostrazione che i fondi sovrani qatarini hanno occhi per l'eccellenza d'alta gamma: aziende già internazionalizzate, marchi noti sul panorama quantomeno europeo, che attraverso il loro investimento vorrebbero contribuire a lanciare ancora di più sui mercati globali.

Diverso è il discorso per il settore delle costruzioni: «Dei progetti edilizi in sé, sono pochi quelli che interessano ai fondi sovrani – racconta Masera – tutti grandi e limitati a tre città: Roma, Firenze e Milano. In questo campo però non bisogna sottovalutare il ruolo delle grandi famiglie di contractor qatarine, con una capacità di investimento di oltre un miliardo all'anno, le quali invece guardano alle società complementari all'edilizia in senso stretto: produttori di cancelli, case di arredamento e design, automazione. Acquisire una partecipazione in queste aziende significa avere a disposizione questi prodotti per la loro attività di constructor, ma anche diventarne i distributori esclusivi per tutto il Medio Oriente». E per queste società, il target dimensionale si abbassa. Fino al caso estremo dei dieci dipendenti, appunto.

Moda, costruzioni. Poche speranze per gli altri. «Il comparto food è certo un'altra eccellenza del made in Italy – chiarisce Masera – ma qui entrano in gioco considerazioni di carattere etico: vino e insaccati sono prodotti off limits per un musulmano». E la meccanica? «Gli emiri non guardano solo alla redditività, nelle loro scelte la componente emotiva è molto forte», spiega Masera. E vantarsi con gli amici di possedere Valentino è tutta un'altra cosa.

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