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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2014 alle ore 08:26.
L'ultima modifica è del 17 febbraio 2014 alle ore 15:16.

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Ha senso continuare ad affermare che le imprese italiane fanno poca innovazione, investono poco, sono poco aggressive sui mercati esteri? Guardando agli ultimi dati del Trade Performance Index dell'Unctad-Wto si direbbe proprio di no. L'Italia, infatti, è seconda solo alla Germania per numero di migliori piazzamenti nelle 14 classifiche 2012 di competitività relative ad altrettanti settori del commercio mondiale. E in Europa, Germania e Italia fanno letteralmente il vuoto dietro di loro.

Il terzo Paese europeo più competitivo, l'Olanda, può vantare solo tre secondi posti, un terzo e un quarto posto, per quanto riguarda i piazzamenti di vertice, contro tre primi posti, tre secondi posti, un terzo posto e un sesto posto dell'Italia. Nelle graduatorie Unctad-Wto, poi, Svezia, Francia e Finlandia seguono ancor più distaccate.
Se, inoltre, consideriamo i 935 prodotti in cui, secondo l'Osservatorio Fondazione Edison-GEA, l'Italia è prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l'estero, possiamo notare che ben 415 di tali beni appartengono a settori innovativi della meccanica e dei mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli e che tali 415 beni hanno generato nel 2012 un surplus con l'estero pari a 95 miliardi di dollari.
I rilievi critici più comunemente rivolti alle imprese da parte della "politica", e spesso provenienti anche da istituzioni e centri studi blasonati, fanno parte di un bagaglio antico di luoghi comuni che si sono accumulati negli ultimi 15-20 anni e che non tengono conto in alcun modo delle profonde modificazioni strutturali che hanno interessato il sistema manifatturiero italiano. Quest'ultimo è continuamente accusato di avere imprese troppo piccole e sottocapitalizzate, incapaci di competere nel nuovo scenario globale e di esportare nei mercati extra-Ue; di essere un sistema produttivo non abbastanza "moderno" e di non fare abbastanza ricerca e innovazione; di avere una specializzazione "sbagliata" nel commercio mondiale (cioè di produrre beni troppo simili a quelli dei Paesi emergenti con basso costo del lavoro); di essere poco competitivo e quindi di costituire la vera palla al piede che spiega la bassa crescita del nostro Pil degli ultimi due decenni.

Tutti luoghi comuni che abbiamo persino esportato al l'estero. Tant'è che si ritrovano puntualmente anche nel Rapporto della Commissione europea dell'aprile 2013 sugli squilibri macroeconomici del l'Italia, a cui hanno contribuito in modo determinante - secondo la nostra migliore tradizione autodenigratoria - numerosi estensori italiani.
Ci lamentammo a suo tempo sul Sole 24 Ore (2 luglio 2013) che il Governo non avesse immediatamente protestato con vigore per quelle affermazioni sbagliate sulla nostra scarsa competitività internazionale - affermazioni certificate dall'Ue, e che quindi in quanto tali avrebbero nuociuto gravemente alla nostra immagine, al nostro rating e allo spread. Ma da Roma non si alzò una sola voce. Forse perché molti nostri politici sono loro stessi convinti, purtroppo, che abbiamo un sistema manifatturiero scarso e fatto di imprese incapaci di competere.

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