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Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2014 alle ore 06:42.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 14:12.

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(Corbis)(Corbis)

Tre notizie. Primo. Il Senato sta per mandare al voto in Aula una risoluzione approvata dalla commissione Ambiente che impegnerà il Governo ad aumentare del 50% le già ambiziose royalty italiane sui giacimenti e a mettere una moratoria sulle nuove perforazioni in mare. Conseguenza: addio a 18 miliardi di investimenti delle compagnie in fuga, addio a riserve per una cinquantina d'anni – dovremo continuare a pagare 65-70 miliardi l'anno per finanziare gli oligarchi russi, i teocrati iraniani e così via – e addio a incassi da destinare alla spesa pubblica, che il Fisco dovrà ricuperare mettendo le mani in tasche diverse da quelle delle compagnie petrolifere.

Seconda notizia: molti italiani non lo vogliono, ma di fatto l'Italia si scopre un Paese petrolifero con i fiocchi. Nel sottosuolo italiano si stimano riserve per 700 milioni di tonnellate di petrolio (o di metano) che se sfruttati al ritmo attuale potrebbero durare mezzo secolo. Terza notizia, dalla tonalità seppiata, come i tormenti politici internazionali della bell'époque e della diplomazia delle cannoniere: l'Italia manderà le navi da guerra a proteggere i suoi giacimenti di petrolio nel Mediterraneo, a ovest della Sardegna e nelle acque italiane davanti a Malta. Il ministero dello Sviluppo economico e la Marina militare stanno per perfezionare un'intesa per pattugliare i mari di competenza italiana dove potrebbero esserci riserve preziose sulle quali "potenze straniere" (come si scriveva un secolo fa) hanno già posato gli occhi e hanno provato ad appropriarsele.

È accaduto nel canale di Sicilia, quando Malta ha messo in vendita aree petrolifere nelle acque di spettanza italiana. Ed è accaduto fra la Sardegna e le Baleari, nei tratti italiani. Con grande sorpresa delle autorità italiane, alcune società geologiche estere hanno offerto in vendita a compagnie internazionali i dati del nostro sottosuolo marino basate su prospezioni geologiche fatte abusivamente. Se l'Italia fosse rimasta distratta ancora a lungo, forse sarebbero potute arrivare perfino – chissà – trivelle anonime.
Intanto la commissione Ambiente del Senato ha approvato una risoluzione a maggioranza assembleare: esclusi solamente i rappresentanti del Movimento 5 Stelle, per i quali la risoluzione è troppo tenera. La risoluzione impegna il Governo a vietare tutte le trivellazioni in mare, a introdurre una royalty per lo smantellamento futuro delle istallazioni petrolifere (oggi regolato con una fideiussione legata alla complessità dell'istallazione, non alla quantità di greggio estratto) e ad aumentare del 50% le royalty ordinarie (sono state rialzate di recente, portandole al 10% per il gas e al 7% per il greggio se giacimenti in mare, e il 10% per ambedue se in terraferma).

Norme che farebbero scappare senza ripensamenti gli investitori che hanno in Italia progetti per 18 miliardi di euro. Basta fare un confronto con i Paesi del Mare del Nord, che hanno azzerato le royalty ingrassando la fiscalità, con la Sicilia, dove ogni euro petrolifero finisce nelle casse della Regione. Affamata di denaro, la Sicilia ha imposto royalty doppie rispetto al resto del Paese, e le compagnie hanno congelato gli investimenti, impoverendo le casse di una Regione avida fino all'autolesionismo.
Il "no-a-tutto" di sedicenti ambientalisti sta facendo sì che in Italia già da due-tre anni non si trivella mentre appena di là dal confine è un fermento di torri di perforazione e ricerche. Non serve arrivare a Cipro o Israele dove le scoperte di giacimenti stanno cambiando la geopolitica dell'energia fino a spingere Standard&Poor's ad alzare il rating di Israele. È più facile guardare in Adriatico, in Montenegro di fronte a Cattaro o in Dalmazia dove la Croazia sta richiamando compagnie di mezzo mondo a studiare i fondali adriatici a ridosso delle acque italiane; la Francia e la Spagna sono interessate al "bacino del Rodano" e al mare aperto tra Baleari, Sardegna e Corsica.

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