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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2014 alle ore 13:55.
L'ultima modifica è del 25 marzo 2014 alle ore 13:59.

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Il giudice della seconda sezione penale del tribunale di Milano, Antonella Brambilla, aveva riconosciuto gli imputati colpevoli di omessa dichiarazione dei redditi, ma aveva assolto Dolce e Gabbana dall'accusa di dichiarazione infedele per 800 milioni di euro, «perché il fatto non sussiste». I pm Laura Pedio e Gaetano Ruta avevano chiesto la condanna dei due stilisti a due anni e sei mesi di reclusione. Secondo l'accusa, Dolce e Gabbana avevano realizzato un'operazione di esterovestizione attraverso la creazione nel 2004 della società lussemburghese Gado, alla quale erano stati ceduti i marchi della maison.
Gli imputati erano anche stati condannati al pagamento di 500mila euro all'agenzia delle Entrate.

Secondo il tribunale di primo grado, Dolce e Gabbana erano consapevoli di aver ceduto i marchi della loro maison a una società esterovestita, la lussemburghese Gado. I marchi furono venduti per 360 milioni di euro mentre per la procura il loro valore era di oltre un miliardo.
«La condotta di esterovestizione – aveva scritto il giudice nelle motivazioni della sentenza – si è tradotta nella costituzione di una società solo apparentemente allocata in Lussemburgo e non dotata di alcuna struttura amministrativa gestionale, contabile e idonea a legittimare il dubbio circa la disciplina impositiva applicabile»: la consapevolezza «di tale fatto costituisce elemento soggettivo certamente integrato in capo ai due stilisti». Secondo il tribunale «la stessa costituzione di Gado» non poteva ritenersi che «finalizzata a trasferire in Lussemburgo il reddito derivante dalle royalties». Il giudice aveva accennato anche alle polemiche sollevate dagli stilisti contro il fisco, colpevole di chiedere il pagamento di «tasse superiori alle entrate». «Il danno – aveva scritto il giudice, riferendosi alla provvisionale di 500mila euro da versare all'agenzia delle Entrate – può ritenersi in verità limitato al danno morale non tanto, ovviamente, per l'esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

La serrata
A luglio dell'anno scorso, dopo la sentenza, i due stilisti avevano chiuso per tre giorni i negozi di Milano in polemica per una dichiarazione dell'assessore al Commercio del Comune, Franco D'Alfonso: «Niente spazi comunali a chi è stato condannato per evasione fiscale». Dolce e Gabbana hanno sempre respinto tutte le accuse.
Gli avvocati Massimo Dinoia, Fortunato Taglioretti e Armando Simbari, legali dei due stilisti, avevano dal canto loro ribadito che «le motivazioni riconoscono e ribadiscono un principio fondamentale, che invano i pubblici ministeri avevano tentato di by-passare: nessuno può essere condannato a pagare imposte su redditi che non ha mai percepito».

Non solo. «La sentenza - avevano aggiunto i legali - è un doveroso riconoscimento alla piena legittimità della condotta dei due stilisti: la cessione dei marchi è avvenuta mediante un contratto di compravendita, rispetto al quale Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno pagato regolarmente tutte le imposte, fino all'ultimo centesimo. Questo è il motivo per cui i due stilisti sono stati assolti con formula piena dal reato di dichiarazione infedele, nonostante fosse già maturata la prescrizione».
Quanto all'esterovestizione della Gado, gli avvocati avevano sottolineato che «come le risultanze processuali siano state travisate o dimenticate dal Tribunale».

Secondo i legali della difesa, Dolce e Gabbana non hanno mai «avuto alcun coinvolgimento, diretto o indiretto, nell'attività» della società lussemburghese Gado e chi li ha ritenuti «co-responsabili di una asserita attività illecita...non si è minimamente posto il problema di chi fossero e di che cosa facessero, all'interno del gruppo, i due stilisti».
Dolce e Gabbana, scriveva l'avvocato Dinoia nella richiesta di appello, «non hanno mai amministrato, né di "fatto" né di "diritto", la società lussemburghese Gado. Tra loro e la gestione di quella società vi è sempre stata una distanza siderale: mai si sono attivati né mai hanno saputo cosa facessero in Lussemburgo» i manager che gestivano la Gado, «quali iniziative intraprendessero e come quelle iniziative incidessero sull'attività della società e del gruppo». Per questo motivo il legale di Dolce e di Gabbana – chiedendo l'assoluzione dei due stilisti - parlava di «un clamoroso errore» perché «il "loro" mondo distava anni luce da quello di Gado».

Di «anomalie della sentenza» aveva parlato anche l'avvocato Simbari. «Nessuno - scriveva nei motivi di appello - aveva la volontà di creare una realtà solo sulla carta; nessuno aveva la volontà di "nascondersi"; nessuno voleva trasferire i marchi un una cassaforte "occulta"». Gado, insomma, «svolgeva legittimamente la sola attività di tutela dei marchi» e «la contestazione di esterovestizione va considerata infondata sia in fatto che in diritto».

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