Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 05 maggio 2014 alle ore 07:13.
L'ultima modifica è del 05 maggio 2014 alle ore 07:19.

My24

di Luca Orlando

«Se avessi i costi dell'energia di altri paesi? Semplicemente, sarei competitivo». Massimo Sobrero, direttore divisione di Burgo, non ha dubbi e del resto l'equazione è semplice. Per una produzione energivora come quella della carta, gas ed energia elettrica rappresentano la voce di costo fondamentale, in grado di fare la differenza tra una commessa persa ed una guadagnata. «Nel nostro impianto statunitense - aggiunge l'ad di Panaria group Giuliano Pini - l'energia ci costa il 70% in meno».

Che si tratti della carta Burgo oppure delle piastrelle Panaria è evidente che la manifattura italiana abbia un problema. Non solo l'energia, per la verità. Tasse, costo del lavoro e burocrazia presentano infatti alle imprese un conto salato per produrre, sempre mene sopportabile alla luce della concorrenza internazionale. Salato, ma quanto? A quantificare il gap provvede ora l'aggiornamento 2014 dello studio di Boston Consulting Group, che mette in fila le principali economie globali proprio in relazioni ai costi manifatturieri. Un indice che identifica negli Usa il "100" di riferimento e che tiene conto di salari, produttività, costi dell'energia, il tutto ricalcolato sulla base dell'evoluzione dei tassi di cambio.

Il riferimento a Washington non è casuale, perché proprio attraverso la riduzione dei prezzi energetici grazie a shale oil e shale gas e alla "moderazione" nel costo globale del lavoro gli Stati Uniti hanno dato concretezza alla volontà di rilanciare la manifattura a stelle e strisce, riportando a casa numerose produzioni traslocate in passato oltreconfine.
Per l'Italia il quadro non è esaltante. Negli ultimi dieci anni il gap con gli Stati Uniti si è infatti allargato di dieci punti, portando il paese a quota 123. Tra i dieci maggiori esportatori mondiali - tra quei paesi cioè che dovrebbero porre al centro della propria politica industriale la competitività manifatturiera - siamo quasi in coda, appaiati al Belgio e superati di un punto solo dalla Francia.

Scenario cupo, che in assenza di interventi in prospettiva è destinato addirittura a peggiorare, con un indice che nel 2018 arriverà a quota 128. In sintesi, produrre da noi costerà in media il 28% in più rispetto a quanto si potrebbe fare negli Stati Uniti. Un destino, tuttavia, non ineluttabile, come dimostrano le performance realizzate da altri paesi europei, in grado di tenere il passo della competitività di Washington. Regno Unito e Olanda, praticamente stabili dal 2004 ad oggi e in prospettiva poco mossi anche fino al 2018, evidenziano che competere è possibile anche dall'Europa.

Aggredire i problemi, per l'Italia, significa incidere anzitutto su due fattori: energia e costo del lavoro. Il taglio dell'Irap annunciato dal Governo Renzi è un primo passo nella direzione giusta, in un cammino tuttavia lungo. Le ultime rilevazioni di Price WaterhouseCoopers indicano infatti per l'Italia un'incidenza fiscale legata al lavoro in rapporto ai profitti d'impresa pari al 43,4%, esattamente il doppio rispetto alla Germania, quasi cinque volte tanto se il termine di paragone è Washington.

Il risultato finale è quello di creare un total tax rate del 65,8%, posizionando l'Italia al 138esimo posto al mondo e scoraggiando in partenza ogni potenziale investitore internazionale.

L'altro fronte è l'energia, anche in questo caso vessata da una tassazione pesantissima, ambito dove gli analisti di Boston Consulting Group vedono per l'Italia un triste primato: il kilowattora più caro è il nostro, con 22,2 centesimi, esattamente il quadruplo di quanto paga il miglior paese della lista, la Russia.

A "condire" il tutto, peggiorando il quadro nazionale, ci sono poi altri due fattori per nulla trascurabili: da un lato la produttività, dove l'Italia è da anni in coda alle classifiche internazionali, dall'altro la forza dell'euro (sorte che peraltro ci accomuna all'intera unione monetaria), che rende ogni produzione locale per definizione più costosa rispetto a quanto accade altrove.

«Il limite del rapporto euro-dollaro oltre il quale non siamo più competitivi? Ci siamo già arrivati» spiega Silvio Albini, titolare dell'omonimo gruppo tessile, 130 milioni di ricavi per il 70% grazie all'export. Avere un paese competitivo significa poter vendere i suoi tessuti, tenere in piedi il distretto in cui opera, rilanciare l'occupazione.
L'unico reddito di cittadinanza, in fondo, parte da qui.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi