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Questo articolo è stato pubblicato il 01 giugno 2014 alle ore 09:50.
L'ultima modifica è del 01 giugno 2014 alle ore 14:29.

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Sergio Marchionne (LaPresse)Sergio Marchionne (LaPresse)

Il manager dal golfino nero arrivò a Torino in giacca e cravatta. Il girocollo informale è un'idea che gli è venuta dopo: Sergio Marchionne è attento alle apparenze come alla sostanza. Al di là dei simboli, che l'italiano venuto dal Canada non fosse un manager come gli altri si era capito "alla velocità della luce" (per usare un'espressione a lui cara): da come ha snellito in pochi mesi la struttura direzionale del gruppo, accantonando – oltre ai pachidermi annidati negli uffici – anche i manager che non si sarebbero integrati nel suo progetto; dalle mosse da manager americano, come l'andare a pranzo alla mensa di Mirafiori; dal modo di spiazzare i sindacati, che fino al 2007 lo applaudivano compatti e si sono poi divisi in feroci polemiche. Un personaggio, insomma, che il sistema Italia ha fatto fatica a classificare (il numero di libri scritti su di lui dimostra peraltro che i tentativi non sono mancati).

L'immagine pubblica di Marchionne ha subìto gli alti e bassi abbastanza tipici in Italia: esaltato all'inizio per il risanamento dei conti e l'impegno a non chiudere le fabbriche, criticato per il blocco degli investimenti, per i compensi da record e più di recente per la decisione di spostare la sede del gruppo Fiat all'estero. Molto più positiva è l'immagine che il manager italo-canadese ha negli Stati Uniti, per il suo ruolo nel salvataggio e nel rilancio della Chrysler; un'operazione, quella con Chrysler, che rimane per ora il suo capolavoro e che ha portato a Fiat, oltre a un serbatoio di utili che si è rivelato essenziale negli ultimi tre anni, anche a un cambiamento epocale nell'organizzazione.
Dal punto di vista manageriale, infatti, Fiat si è davvero e ormai definitivamente globalizzata. Marchionne guida Fiat Chrysler – in perfetta sintonia con il presidente e proprietario John Elkann – con una squadra di 19 manager che gli rispondono direttamente, ovvero i membri del Consiglio direttivo, il Gec: sono 5 italiani, 6 stranieri di origine Fiat e 8 "americani". Al centro c'è sempre lui che, dotato di capacità lavorative fuori dal comune, ha accentrato su di sé di volta in volta parecchi ruoli contemporaneamente: oltre che amministratore delegato è stato per lunghi periodi chief financial officer, capo del settore auto, poi presidente e amministratore delegato di Chrysler e – dopo lo scorporo di Fiat Industrial – presidente di quest'ultima.

Il "Dottore" – come viene chiamato in Fiat - ha sempre concesso ai suoi manager un'autonomia limitata (anche dal punto di vista finanziario) e ha mantenuto un notevole controllo su tutti i dettagli. Un aneddoto per sintetizzarlo: nel 2009 la Fiat lanciò un restyling della Punto, chiamandola Punto Evo. L'evoluzione era rappresentata nello spot pubblicitario da una riga che si colorava progressivamente di blu, come quando un computer carica un programma. E proprio sulla tonalità di blu di quella riga, in occasione di un convegno sull'auto un marketing manager del Lingotto chiedeva ansiosamente al telefono: «L'ha vista il Dottore, gli va bene?».

Il suo ruolo di deus ex machina dell'organizzazione Fiat provoca negli analisti finanziari periodici accessi di ansia alla domanda: «Che succederebbe se dovesse andarsene all'improvviso?». Marchionne, che compie 62 anni alla fine di questa settimana, resterà nei piani al volante del gruppo (almeno) fino al 2018; la durata del suo mandato avvicinerà così quella dei grandi manager Fiat del passato, da Valletta a Romiti. La sua impronta è già altrettanto significativa, anche se con un manager così forte e accentratore, il giudizio conclusivo potrà arrivare solo quando avrà passato il testimone.

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