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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 18 giugno 2014 alle ore 06:57.

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PARMA. Dal nostro inviato
Un salto di paradigma. In quel delicato e fragile, robusto ed elastico ganglio che è rappresentato dalla connessione fra la strategia di impresa (di lungo periodo) e la gestione industriale (quotidiana). Vieni a Parma e, con il profumo di pasta nell'aria che è uno degli odori distintivi del fare impresa nel nostra Paese, trovi la Barilla impegnata a completare questa evoluzione. La sostenibilità è diventata un elemento della sua corporate identity in una misura così profonda da orientare l'intera supply chain e da condizionare il rapporto con il consumatore finale. Gli anni Cinquanta, in Italia in generale e a Parma in particolare, sono stati segnati dal passaggio dalla dimensione artigianale a quella industriale.
Nel 1953 Pietro Barilla va in Germania e, anziché tre macchinari, ne acquista sette perché «io credo che la propensione ad essere ottimisti o pessimisti appartenga alla parte più profonda del nostro carattere», come racconta la voce di Pietro nella biografia del sociologo Francesco Alberoni, «Tutto è fatto per il futuro, andate avanti con coraggio». Gli anni Ottanta, nel gruppo tornato ai Barilla dopo la parentesi del decennio precedente con gli americani di W.R. Grace and Company, vedono la fabbrica trasformarsi con l'automazione. Adesso è in corso – si sta ultimando – questa ultima mutazione. Una mutazione strategico-culturale, prima ancora che industrial-commerciale. Le materie prime e l'energia adoperata nei processi industriali, il packaging e il suo confezionamento, la concezione del cibo e in fondo una certa idea di capitalismo. «La prima politica ambientale della Barilla – ricorda Luca Ruini, responsabile della sicurezza, dell'ambiente e dell'energia – è del 1999, quando si iniziò a fare un ragionamento sulla parte industriale». Da allora – dal semplice obiettivo di risparmio d'acqua e energia – si sono aggiunti tasselli su tasselli, fino a comporre il mosaico attuale che ha ridisegnato il profilo dell'impresa e del suo rapporto con il mondo.
Continua Ruini: «Abbiamo cambiato il rapporto con gli agricoltori». Da un lato Barilla contribuisce a selezionare la qualità delle sementi e, dall'altro, "invita" i contadini ad adoperare buone pratiche anti-intensive. Il grano Barilla Aureo, selezionato a partire da una varietà che cresce nei deserti nordamericani, permette in Italia una riduzione di un terzo dell'impatto ambientale: questo seme è "abituato", infatti, a climi ben meno miti e, dunque, non ha bisogno di essere irrigato. Ma se, usando il lessico industrialista classico, il grano Aureo è una innovazione di prodotto, il rapporto con gli agricoltori diventa una sorta di innovazione di processo allargato, che dalla fabbrica novecentesca sembra quasi pervadere i campi dell'Ottocento, in quello strano impasto di moderno e antico che caratterizza l'industria agroalimentare. Costantino Vaia, vestito come un dirigente di Mediobanca, è il managing director del Consorzio Casalasco del Pomodoro, quello spicchio di terra umida e fertile di Bassa compreso fra il Cremonese, il Parmense e il Mantovano. La sua cooperativa ha seicento addetti, raduna 300 aziende e fattura 200 milioni di euro. «Il tema della sostenibilità – racconta Vaia – è insieme etico, economico e organizzativo. Prendiamo la rotazione dei campi. La terra è intimamente migliore. La filiera è cortissima. Il prodotto è tracciato dal seme allo scaffale al cento per cento. E c'è anche un riconoscimento economico».
La sostenibilità muta dunque prima di tutto il rapporto con i fornitori. «E implica anche spese extra che secondo una normale gestione aziendale potrebbero essere evitati», nota Marco Sacchelli, direttore dello stabilimento di Rubbiano di Solignano inaugurato nell'ottobre del 2012, il più automatizzato del gruppo per il segmento dei sughi. Sacchelli indossa un camice bianco da Max Planck Institute e ha la faccia da contadino in un quadro di Pelizza da Volpedo: «Prenda il basilico. Abbiamo tre o quattro fornitori selezionati. I nostri agronomi hanno scoperto che la pianta va raccolta con le prime luci dell'alba. Lo facciamo, anche se questo provoca dei sovraccosti».
Il tema della sostenibilità e della ricerca della qualità, con i costi considerati prima di tutto investimenti, caratterizza la Barilla e, più in generale, un modello di impresa europeo-continentale. Kristen Anderson, manager americana della Ricerca e Sviluppo e della Qualità del gruppo, ha lavorato in Kraft e in Coca Cola: «Sono realtà eccellenti del capitalismo internazionale, ma con una impostazione diversa. Negli Stati Uniti c'è una tendenza assai spinta alla riduzione dei costi e alle performance di breve periodo. In una impresa come la Barilla, italiana e non quotata, la prospettiva è di lungo termine. La sostenibilità diventa un metodo unificante». Dai campi al consumatore. Per esempio con il programma "Good for You, Good for the Planet". Con il prodotto perno di questo meccanismo di impresa, che riguarda appunto l'impatto sull'ambiente e sulle persone del fare industria e commercio.
«Per i biscotti Ringo – spiega Anderson – abbiamo impiegato un anno per trovare la formula per avere, a parità di gradimento, meno grassi saturi». Dunque, la sostenibilità - per l'ambiente e per i clienti, per i fornitori e per i lavoratori, fino al consumatore finale - è il filo verde che corre nell'organismo industriale di Barilla. «Dal 2008 - evidenzia Antonio Copercini, responsabile della supply chain di tutto il gruppo - abbiamo costituito una supply chain unitaria che riesce a coniugare sostenibilità e competitività». In questo modo Barilla riesce ad abbattere i costi di due punti all'anno, un decimo dei quali riferibili a progetti di innovazione sostenibile.

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