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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2010 alle ore 20:27.
La Corte di Cassazione (Terza civile, sentenza 16917/2010 depositata ieri) ha confermato la condanna di Bruno Vespa per diffamazione dei due pm napoletani che, negli anni'90, avevano ordinato l'arresto del manager Vito Gamberale, poi assolto. Vespa, citato a giudizio per un passaggio del libro "La sfida" in cui l'intervistato Gamberale definiva «illegittimo» il suo arresto, si era difeso sostenendo di aver solamente riportato la «sostanziale verità dei fatti», peraltro confutata da due sentenze di merito e anche da un'indagine ispettiva del ministero.
I giudici di piazza Cavour hanno però nuovamente avallato la condanna di Bruno Vespa (24 mila euro per ciascuna delle parti offese) sottolineando che al giornalista non basta riportare fedelmente le parole dell'intervistato, avendo anche il dovere di controllare la veridicità delle circostanze riferite e la continenza delle espressioni riferite, mantenendo comunque sempre una "posizione imparziale". Invece l'intervista incriminata «era punteggiata da domande di cui appariva ovvia la risposta, nonché accompagnata da notizie allusive, da sottintesi, da ambiguità tali da ingenerare nel lettore la convinzione della rispondenza al vero dei fatti esposti», e ignorava invece le circostanze di possibili ricostruzioni alternative «già conoscibili al momento della stesura del libro». (A.Gal.)
I giornalisti siano imparziali di fronte all'intervistato - Le motivazioni