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Questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2010 alle ore 07:47.
«A ripensarle oggi, alla vigilia del secondo congresso della nuova categoria, le polemiche sull'unificazione tra dottori e ragionieri mi sembrano appartenere alla preistoria». Claudio Siciliotti, classe 1952, casa e studio a Udine, alle spalle un lungo impegno nelle rappresentaze della categoria, è il presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, cui è toccato realizzare, dal 2008, l'Albo unico.
Domani aprirà a Napoli il congresso «Per un paese migliore»: circa 2mila commercialisti fino a sabato si confronteranno su quattro proposte: per migliorare il rapporto fisco-contribuente; per accrescere la capacità delle piccole imprese di "meritare" credito e di superare situazioni di difficoltà economiche; per dare ai professionisti, con le società professionali, uno strumento efficace per svolgere l'attività.
Nel 2008 la scommessa era costruire una nuova professione dalla tradizione di ragionieri e dottori commercialisti. Oggi la sfida, per Siciliotti, è dare rappresentanza a una «comunità che condivide competenze, funzioni e valori e che fa lobby in senso anglosassone, non ripiegata su se stessa, ma con attenzione alla collettività».
Il congresso sarà la vetrina per le vostre proposte. La prima riguarda il rango costituzionale per lo Statuto del contribuente. L'idea non è nuova. Che cosa fa la differenza?
Occorre che ci siano regole uguali per l'amministrazione e il contribuente: per un fisco più equo è indispensabile la fiducia. Noi mettiamo a disposizione un disegno di legge e speriamo che qualcuno se ne faccia carico.
Inserire in Costituzione lo Statuto può in qualche modo incidere sulla lettura della Cassazione relativa all'abuso del diritto?
Non incide ma crea un presupposto perché si arrivi a una legge che consenta la certezza del diritto.
La Cassazione, nel qualificare sempre più comportamenti come abuso del diritto, sta minando i principi della consulenza fiscale?
Mario Cicala, ex giudice della sezione tributaria della Cassazione, ha avuto modo di dire che nessun commercialista avrebbe potuto pensare di qualificare come indeducibili i compensi dell'amministratore di una società di capitali. La sentenza va rispettata, ma ci auguriamo che la decisione, anche nelle conseguenze, resti isolata.