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Questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio 2011 alle ore 18:49.

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Detenere software pirata non è violazione di copyright, la sentenza del Tribunale di RomaDetenere software pirata non è violazione di copyright, la sentenza del Tribunale di Roma

Non basta detenere software pirata per essere condannati per violazione del copyright. Bisogna provare anche il loro effettivo utilizzo o copia da parte dell'imputato. Sono queste le motivazioni, appena uscite, di una sentenza sui generis con cui il Tribunale di Roma (V sezione) ha assolto, a novembre, un imprenditore italiano. Nella sua azienda la Guardia di Finanza aveva trovato 270 software privi di licenza, distribuiti su 103 computer. C'erano prodotti Microsoft, Symantec, Adobe e persino un ampio armamentario di file crack presenti su un server usato da circa 300 persone, per aggirare le protezioni di quei software.

«E' una grave sconfitta per Microsoft e della Business Software Alliance Bsa (associazione che riunisce le multinazionali del software). Questa sentenza, per le sue motivazioni, renderà più difficile la lotta alla pirateria», commenta Fulvio Sarzana, avvocato esperto di diritto delle nuove tecnologie e difensore dell'imprenditore. «La sentenza esonera di conseguenza il mio assistito dal pagare la multa di 284 mila euro applicata dalla Guardia di Finanza», continua Sarzana.

Microsoft si era si era costituita parte civile nel procedimento penale chiedendo danni per centinaia di migliaia di euro. La Bsa aveva fornito ai militari della Guardia di finanza il personale per l'accertamento tecnico della violazione e la valutazione sul costo dei singoli software.

In particolare, «si legge nella sentenza che la detenzione di software sprovvisti di licenza o con licenza scaduta (cioè pirata) non configura il reato di violazione del copyright. Anche se all'interno dei computer vengono trovati i dispositivi di aggiramento tecnologico in grado di far funzionare i software senza licenza, quelli che in gergo vengono chiamati crack», spiega Sarzana.

«Applicando anche i principi già stabiliti dalla Corte di Cassazione in riferimento al mancato obbligo di apposizione del bollino SIAE sui supporti informatici, il Tribunale ha ritenuto che senza la prova della duplicazione del software da parte dell'imprenditore e senza quella dell'effettivo uso dei crack sulle singole macchine, il fatto non sussiste», continua Sarzana. «Ha insomma assolto l'imputato con la formula più ampia possibile». Se la sentenza farà scuola renderà le cose più difficili alle multinazionali dell'informatica, perché dovrebbero procurarsi anche le prove menzionate dal giudice.

L'imprenditore ha insomma affermato di non sapere chi avesse messo quei software sui computer della sua azienda. A quanto è dato sapere, i software venivano utilizzati nel settore della formazione, in un contesto non commerciale, da una società che era riconosciuta come laboratorio di ricerca accreditato presso il Ministero dell'Università e della ricerca scientifica. «Fra i corsi erogati alcuni riguardavano proprio l'educazione alla legalità nel settore della proprietà industriale», dice Sarzana.

«E' un caso da cui non è possibile trarre una regola generale secondo cui quella fattispecie non sia reato. Le leggi non sono cambiate. Resta il fatto che se si violano i diritti su un software si incorre in sanzioni, almeno sul piano civile», dice Simona Lavagnini, avvocato di Bsa. «Concordiamo con Bsa. Il giudice non ha rilevato il reato penale in questo caso peculiare, ma questo non cambia la normativa a tutela del copyright», aggiungono da Microsoft. «E' scorretto chiosare che la legge permetta di usare il software senza averne la licenza». Lavagnini aggiunge: «non ritengo corretto affermare che sia stata una grave sconfitta per Bsa, che non si è costituita parte civile ma si è limitata a prestare consulenza».

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