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Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2011 alle ore 19:25.

Il semplice "consiglio", non accompagnato da atti di violenza, di rivolgersi a una determinata ditta dato da imprenditori in "odore di mafia" lede la libertà di impresa. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso della Procura del tribunale di Napoli contro la decisione dei giudici del riesame che avevano rimesso immediatamente in libertà due imprenditori campani, che avevano imposto una ditta di trasporti, gestita a metà tra il clan dei Casalesi e esponenti di Cosa nostra vicini alle famiglie Provenzano e Riina. L'«indicazione» serviva a mantenere il monopolio nel trasporto dei prodotti destinati ai mercati ortofrutticoli della Campania e della Sicilia.
Il tribunale del riesame riteneva provato solo il reato di associazione per delinquere
Il tribunale del riesame, pur ammettendo che il sodalizio mafia-camorra aveva consentito alle consorterie criminali di incrementare e mantenere il loro giro di affari, riteneva provato il solo reato di associazione per delinquere. Secondo i giudici, infatti, per parlare di violazione delle norme sulla libertà di impresa é necessario che l'imposizione di una determinata ditta sia accompagnata da atti di violenza o minaccia finalizzati all'eliminazione degli altri concorrenti.
Gli ermellini chiedono di correggere la rotta
Un'interpretazione da cui si discostano nettamente gli ermellini (si legga la sentenza su Guida al diritto) che rinviano la questione al tribunale del riesame, invitando i giudici a correggere la rotta, tenendo presente che il metodo mafioso solo in casi estremi ha bisogno di ricorrere alla violenza fisica o alla minaccia aperta. Per raggiungere lo scopo spesso è sufficiente dare un consiglio "che non si può rifiutare".
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