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Questo articolo è stato pubblicato il 22 ottobre 2011 alle ore 08:19.

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Gli studi di settore tornano a scommettere sugli indici di normalità. L'obiettivo è utilizzare lo strumento per individuare i casi in cui Gerico viene utilizzato in modo troppo disinvolto da contribuenti alla ricerca di una falsa congruità. Proprio per quel che riguarda le scorciatoie sulla congruità stanno dando buoni risultati i controlli che l'agenzia delle Entrate ha messo in atto in questo periodo, segnalando agli uffici locali decine di migliaia di casi in cui la voce "costi residuali" assume un peso sproporzionato rispetto ai ricavi dichiarati e al totale dei costi.

Due le coordinate dell'intervento in atto sugli studi: da un lato, la stretta che è stata prevista dal legislatore nell'ambito delle manovre estive e dall'altro la stessa attività di controllo mirata che è stata messa in atto dall'agenzia delle Entrate.

Dei controlli sui costi aveva parlato già il direttore dell'Accertamento dell'Agenzia, Luigi Magistro, nel corso del convegno organizzato dai commercialisti a Bari (si veda Il Sole 24 Ore dello scorso 5 ottobre). Controlli che sono finalizzati ad andare a fondo nelle modalità di gestione dei costi. Spesso accade, infatti, che i contribuenti utilizzino in modo disinvolto la voce costi residuali, che non provoca effetti sulla funzione di regressione destinata a determinare i ricavi presunti del contribuente. A quanto risulta, i controlli stanno dando risultati positivi sia evidenziando l'indicazione in quella voce di costi non inerenti (una situazione che riguarderebbe più spesso i professionisti), sia il dirottamento di costi da indicare altrimenti per evitare che entrino nella regressione attraverso la quale Gerico determina i ricavi. Una possibilità, quest'ultima, riscontrata più frequentemente nel mondo delle imprese.

I tecnici dell'amministrazione sono anche al lavoro per arrivare a creare nuovi indici di normalità mirati. In particolare, la discussione attuale riguarda i criteri attraverso cui arrivare a forme di selettività che permettano di effettuare le correzioni solo laddove ce ne sia un effettivo bisogno. Questo, per evitare un'altra fine primavera da incubo come quella del 2007, quando gli studi di settore finirono sul banco degli imputati proprio per la creazione di nuovi indici di normalità destinati a colpire a tutto campo. In quella occasione la stretta generalizzata provocò una vera e propria insurrezione che mise a dura prova la stessa tenuta del Governo guidato da Romano Prodi.

I nuovi indici dovrebbero andare a monitorare, invece, una serie di comparti ad alto rischio di evasione, evitando un approccio troppo "generalista", peraltro in controtendenza rispetto al trend storico dell'elaborazione degli studi, che vede come elemento caratterizzante quello del progressivo affinamento dei criteri utilizzati per arrivare alla determinazione dei ricavi. E in questa scia, in fondo, si inseriscono anche i controlli sui costi residuali.

I meccanismi resterebbero, in ogni caso, presunzioni semplici ma dovrebbero diventare spie efficaci in grado di segnalare al fisco la presenza di eventuali irregolarità. Gli indici di normalità, infatti, andrebbero interpretati più come dei filtri rispetto agli studi veri e propri che un elemento che di questi ultimi faccia strutturalmente parte.

Gli indici, in pratica, segnalano quando la gestione dell'impresa o dell'attività sottoposta agli studi presenta elementi anomali che accendono l'attenzione del fisco. Tradizionalmente, un elemento di allarme per gli studi sono state le anomalie sulla gestione del magazzino, oggetto non solo di continue campagne di controlli (e delle lettere che gli uffici mandano annualmente ai contribuenti per segnalare le anomalie), ma anche ormai di una consolidata aneddotica.

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